mercoledì 31 agosto 2016

Indonesia: BIAK

1°11.201' S 136°04.744' E
Le 307 miglia di navigazione da Jayapura a Biak scorrono senza grandi sorprese: il vento è sempre leggero, ma lo sfruttiamo tutto. Ci poniamo come limite di velocità minima 3,5 nodi; sotto questa soglia, accendiamo e procediamo a vela e motore (anche per caricare le batterie). In questo modo, lemme lemme, alle 10.00 di martedì 23 agosto arriviamo a Biak. Controllo il consumo di carburante: 51 ore di percorso, 34 ore di motore, 80 litri consumati, media 2,47 litri/ora. Considerando che il consumo a velocità di crociera è sui 4 litri/ora, non ci possiamo lamentare.
Gettiamo l'ancora in posizione equidistante dal molo delle navi e dal molo del mercato, su un fondale di 16-18 metri di sabbia e corallo basso (1°11.201' S 136°04.744' E).
L'ancoraggio è riparato solo da nord, per cui con il vento da ESE, predominante in questa stagione, può diventare insopportabilmente rollante. Per fortuna siamo in regime di venti leggeri e variabili, e non abbiamo problemi durante la nostra sosta.
All'arrivo non siamo precisamente in forma: Lilli ed io ci siamo beccati un bel raffreddore, con mal di gola, febbre, probabilmente a Jayapura gli sbalzi di temperatura dovuti all'aria condizionata di negozi e uffici ci hanno giocato un brutto scherzo.
Riprese un po' di forze, il giorno successivo vado a terra con il dinghy per le pratiche, mentre Lilli, non ancora sfebbrata, rimane in barca.
Per l'atterraggio scelgo la radice del molo del mercato, anche se prevedo che con la bassa marea di metà pomeriggio diventi troppo alto; spero di rientrare per ora di pranzo. Non appena mi avvicino al molo, alcuni giovani che tengono i primi banchi del pesce accorrono per  darmi una mano, facendomi capire, a gesti, che penseranno loro a guardare il dinghy. Ad ogni buon conto, provvedo ugualmente a lucchettarlo. Uno di loro si presenta: "Mario, nome italiano!"; sembra felice di sentire che sono italiano, parla un buon inglese e si dichiara disponibile per qualsiasi cosa di cui avessi bisogno.
Il mercato è fitto di banchi e quasi buio, perché totalmente ricoperto da teloni, lamiere ondulate, assi di legno, tutto quanto possa essere utile a ripararsi dal sole; una buona metà di banchi, verso il mare, vendono pesce fresco, di molte varietà, mentre gli altri espongono ortaggi e frutta di buona qualità.


Appena uscito dalla fresca ombra del mercato vengo investito dal sole accecante e dal caldo afoso; la città è movimentata e abbastanza grande da trovarvi un po' tutto.
Mostrando l'intestazione della clearance, chiedo ad un taxi-pulmino di portarmi agli uffici dell'Harbour Master: l'autista, dopo essersi consultato con un paio di clienti, mi dice di salire. Mi fa scendere davanti all'ufficio sbagliato, ma comunque un po' di strada l'ho risparmiata; l'Harbour Master si trova sulla strada che corre parallela al mare, subito dopo l'ingresso del porto, è riconoscibile a distanza perché si contraddistingue una torretta blu che si eleva di poco sul fabbricato.
Alla guardiola devo fare un po' di anticamera: "C'è un meeting" è tutto quello che mi sa dire in inglese il giovane di guardia, ma dopo una ventina di minuti mi viene a prelevare un signore in divisa che mi fa strada all'interno dell'ufficio.
Qui una giovane signora in divisa e un suo collega che parla qualche parola in inglese preparano i documenti, dimostrando non poche incertezze sul da farsi (mi sembrava di saperne più io), comunque con un po' di pazienza le carte sono pronte e portate alla firma, pago 9000 rupie di tasse (circa 0,80 €!) e a mezzogiorno sono fuori con la mia nuova clearance interna, fino a Sorong.
Mi resta da fare la clearance della quarantena, anche se Lilli ed io nutriamo qualche dubbio sulla necessità di questo documento, la cui inutilità per le barche da diporto ci sarà infatti confermata qualche giorno dopo a Sorong. L'ufficio portuale della quarantena (che si trova 100 metri prima dell'Harbour Master, nell'ingresso del porto) è chiuso. "Bisogna andare alla sede centrale" mi dice a gesti l'agente di guardia; chiedo se si può andare in taxi, ma capisco dalla faccia che fa che non è possibile, parla con il suo collega e si offre di accompagnarmi lui, in moto.
Alla quarantena, distante 5-6 km (per chi dovesse fare qui il check-in di ingresso in Indonesia riporto le coordinate: 1° 11,183' S 136° 6,721' E), il giovane impiegato capisce un po' l'inglese e velocemente prepara la nuova clearance fino a Sorong, ma non c'è verso di appurare se è possibile evitare questa solfa ad ogni porto; pago l'esosa tassa di 20.000 Rupie (1,3 €) e ritorno in città con la guardia del porto, che mi aveva pazientemente aspettato. Gli dico che può lasciarmi al mercato, ma lui fraintende e mi accompagna al supermercato, dove attende anche lì che io faccia un po' di spesa prima di riportarmi al suo posto di guardia all'ingresso del porto. Sono esterrefatto e piacevolmente colpito da tanta gentilezza, gli lascio una mancia di 50.000 rupie (poco più di 4 €) che lui dimostra di apprezzare.   
Quando alle 14 ritorno in barca, non senza un po' di scorta di frutta e ortaggi, sono completamente disidratato, ma siamo a posto, abbiamo le carte in regola per partire domani alla volta di Sorong! 

martedì 30 agosto 2016

JAYAPURA, Indonesia

2°32.381' S 140°42.508' E
Come detto lasciamo Vanimo e la Papua Nuova Guinea alle 9.30 del 17 agosto; il vento tanto per cambiare latita, quindi ci cucchiamo l'ennesima smotorata. Alle 16.00 dello stesso giorno entriamo nella spettacolare baia di Jayapura: siamo in Indonesia! Chiamiamo l'Harbour Master via VHF, ma non otteniamo alcuna risposta … solo più tardi scopriremo il perché.
Dai resoconti degli altri navigatori sappiamo che, se si vuole restare vicini alla città per le pratiche di ingresso e gli acquisti, bisogna ancorare su circa 30 metri; compiamo ugualmente il solito giro di perlustrazione, alla ricerca di profondità minori, ma è inutile, non ci sono alternative; rassegnati, gettiamo l'ancora su un fondale di 32 metri, proprio davanti al centro città (2°32.381' S 140°42.508' E). Caliamo 80 degli 85 metri di catena che abbiamo a disposizione; proviamo la tenuta con marcia indietro a 1800 giri e l'ancora tiene. La cartografia Navionics è sbagliata di 300-400 metri, e infatti posiziona Refola non DAVANTI al centro della città, ma proprio NEL centro città, a terra!
In acqua c'è un po' di tutto, da sacchetti di plastica di ogni genere e misura, a lattine vuote, a qualsivoglia oggetto galleggiante; in compenso la cornice a terra è splendida.
Vanimo e Jayapura si trovano entrambe sul versante settentrionale della grande isola di Nuova Guinea. Solo 38 miglia le separano, ma in mezzo c'è l'innaturale linea di confine verticale tra Papua Nuova Guinea e Indonesia: un confine che non è solo politico e amministrativo, ma sembra segnare un brusco passaggio nella storia, dall'età della pietra all'era moderna. Già appena entrati nella grande baia ci ritroviamo circondati da uno scenario completamente diverso dal mondo che abbiamo lasciato: in mare pescherecci mai visti prima, tipicamente indonesiani, a terra grandi palazzi, cupole di moschee, e tante tante case, abbarbicate sulle alte colline che si affacciano sul mare.



Uno scenario che diventa ancor più affascinante all'imbrunire, quando tutta la città si illumina. Rispetto alla Papua Nuova Guinea, ci sembra di essere a Montecarlo!
A terra c'è un grande movimento, centinaia di persone sul lungomare, cortei di motociclette e macchine strombazzanti, ovunque sventolano bandiere indonesiane; intorno a noi molte imbarcazioni sono bardate con il gran pavese. In breve ci rendiamo conto che deve essere un'importante ricorrenza nazionale (ecco perché l'Harbour Master non rispondeva). Consultiamo la Lonely Planet e ne abbiamo conferma: proprio il 17 agosto ricorre l'anniversario della prima dichiarazione di indipendenza dell'Indonesia dal dominio olandese, avvenuta il 17 agosto 1945, tre giorni dopo la resa del Giappone. Un'indipendenza che in realtà divenne effettiva solo nel 1949, dopo lunghe e sanguinose battaglie, e che peraltro non riguardò questa zona del paese, che restò parte dell'impero coloniale olandese fino al 1963, quando l'aggressiva politica indonesiana ne decretò l'annessione alla Repubblica Indonesiana. Fino a quella data Jayapura, con il nome di Hollandia, fu capitale della Nuova Guinea Olandese, e cambiò nome solo nel 1969.
Jayapura è quindi una città importante (300.000 abitanti), dalla storia lunga e travagliata, dove convivono culture ed etnie differenti; sono ancora presenti forti spinte autonomistiche ed il controllo indonesiano è percepibile dalla massiccia presenza di forze armate e polizia.
Per noi, dopo mesi di villaggi senza elettricità né strade né automobili, dove la vita delle persone sembrava ripetersi uguale da generazioni e generazioni, è quasi piacevole ritrovare un mondo che, pur diverso dal nostro, ci risulta in qualche modo più familiare. La baia è dominata da un'enorme scritta al neon "Jayapura City", e da due grandi croci, sempre al neon. Ma c'è pure una consistente impronta musulmana: molte donne portano il velo,  gli altoparlanti dei minareti diffondono i richiami alla preghiera dei muezzin, non si trovano alcolici.
Il 18 agosto iniziamo le pratiche per l'ingresso, seguendo praticamente alla lettera le istruzioni di Tom e Susie, una coppia di inglesi che a bordo di "Adina" hanno fatto nel 2015 lo stesso nostro itinerario. Il loro dettagliato report, disponibile sia su Noonsite che sul loro sito yachtadina.co.uk, descrive la dislocazione dei vari uffici, con tanto di coordinate, la loro nomenclatura  indonesiana, come raggiungere le varie località, insomma tutte quelle notizie utili per districarsi quando ci sono difficoltà di comunicazione. Qui infatti pochissimi parlano o capiscono l'inglese.
Per andare a terra, sempre seguendo le indicazioni di Adina, utilizziamo un pontile in legno della polizia nell'angolo nord della baia, adiacente ad un piccolo torrente. Timidamente proviamo a dire in indonesiano "possiamo attraccare qui?" … i poliziotti apprezzano il nostro goffo tentativo di esprimerci nella loro lingua e si fanno in quattro per aiutarci.
Con i nostri appunti sempre a portata di mano, iniziamo dall'Harbour Master, poi la Custom che ci fissa l'appuntamento per l'ispezione a bordo, poi la quarantena, nel pomeriggio completiamo le pratiche con l'immigrazione. Questi ultimi due uffici sono molto distanti, d'altronde la città di Jayapura si espande per una trentina di km, e ha ormai conglobato i piccoli paesi circostanti. Per spostarsi si utilizzano pulmini da 6 posti: quelli bianchi per il centro città, quelli blu per l'aeroporto e quelli verdi per i quartieri periferici; le tariffe variano da 2000 a 4000 Rupie (0,15-0,25 €); se invece si utilizza un pulmino in via esclusiva, come un taxi, la tariffa è circa 250.000 rupie/ora (circa 15 €), ma i prezzi sono trattabili.
Per andare agli uffici della quarantena, che sono decentrati e fuori dal raggio dei pulmini di linea, l'autista del pulmino bianco che ci aveva portato al porto ci chiede 250.000 rupie che contrattando diventano 200.000. Forse l'autista, che spiaccicava qualche parola di inglese, ci ha preso in simpatia, o forse ha apprezzato che lo aiutassimo a spingere quando il pulmino non partiva, comunque ci ha scarrozzato per l'intera mattinata nei vari uffici e a fare acquisti!
L'ispezione a bordo da parte della Custom è stata meticolosa: sono arrivati in sei con una lancia, hanno accostato, in quattro sono saliti su Refola ed hanno rovistato dappertutto. Ci sono limitazioni per l'importazione dell'alcool, un litro a persona, ma per non avere problemi noi abbiamo dichiarato tutte e 16 le bottiglie di vino che abbiamo, facendo gli gnorri sulla birra. Nell'ispezione hanno scovato altre tre bottiglie che avevamo dimenticato sotto la cuccetta di prua (erano lì dal  2012!), ma per fortuna non hanno preso provvedimenti, per loro l'importante è che l'alcool sia per uso personale e che non scenda a terra. Tutto si è risolto felicemente, li abbiamo omaggiati di una bottiglia che (a detta loro) sarebbe stata messa in una vetrina e non assolutamente bevuta. Peccato per loro, era una bottiglia di Valpolicella comprata alle Vanuatu!
Il giorno dopo iniziamo la trafila per ottenere la clearance di uscita dal porto e dalla quarantena ed il permesso della polizia per girare nella provincia. Scopriremo poi che la clearance di quarantena e il permesso della polizia erano perfettamente inutili.
Lilli ed io abbiamo sentito un'immediata simpatia per questa città e per la sua gente così gentile ed ospitale, che esprime, seppure in un inglese stentato, grande voglia di comunicare. Molte persone incontrate sottolineavano con orgoglio di essere papuani, non indonesiani. Lilli è andata in estasi quando un giovane, dopo averle chiesto fuoco per accendere una sigaretta, ha iniziato a chiacchierare e saputo che siamo italiani le ha detto: "Mi piace la musica italiana … gregorio ...". Mentre lei si stupiva che Francesco De Gregori fosse conosciuto anche qui, lui ha attivato la musica sul suo cellulare facendole sentire … un canto gregoriano! Lilli avrebbe voluto baciarlo, ma si è trattenuta, e con un grande sorriso gli ha detto: "Anch'io amo la musica gregoriana!".   
Altro motivo di attrazione, i prezzi bassi: a Lilli non è sembrato vero trovare sigarette a 1,5 € al pacchetto, la simcard per internet (45 giorni di validità e 6 giga dati) a circa 5 €, al ristorante, con vista sulla baia e su Refola, mangiamo in due con 20 €.
C'è perfino un centro commerciale moderno, su cinque piani, con ipermercato alimentare, negozi di abbigliamento di grandi marche e ristoranti vari. 
Ci saremmo volentieri fermati un po' più a lungo, ma abbiamo ancora molto mare davanti a noi... così, rifornita la cambusa, domenica 21 agosto subito dopo l'alba salpiamo per Biak, a 300 miglia.

Vanimo, ultima sosta in PNG

2°41.046'S 141°17.840'E
Alle 6.50 di sabato 13 agosto salpiamo da Mal Island. Usciamo dal gruppo delle Ninigo attraverso la pass che separa Ahu Island dall'isolotto Pelepa, a sud di Ahu; la profondità minima nella pass è di 13 metri, e troviamo circa 1 nodo di corrente entrante.
Finalmente abbiamo un vento costante sui 14-15 nodi: quasi non ci sembra vero, dopo settimane di motore, così ci godiamo queste 200 miglia, a vele spiegate fino a Vanimo.
Alle 14.30 di domenica 14 gettiamo l'ancora in prossimità del molo, nell'angolo SE di Vanimo Harbour (2°41.046'S 141°17.840'E).
Vanimo rappresenta per noi una tappa importante, perché dobbiamo ritirare presso il Consolato il visto per l'Indonesia (richiesto, tramite un agente con sede a Bali, quando eravamo ancora in Nuova Zelanda) e ottenere la clearance di uscita dalla Papua Nuova Guinea. Ci impensierisce il controllo dell'immigrazione: abbiamo sforato il termine di 30 giorni fissato per chi come noi non ha un visto di ingresso in PNG, che scadeva il 6 agosto. Ci faranno problemi?
Un po' ansiosi lunedì 15 agosto, alle 8.15 di mattina, siamo già nell'ufficio dell'Harbour Master per iniziare le pratiche.
Gli altri navigatori passati di qui hanno scritto che l'Harbour Master è molto "helpful" e "yacht friendly", cioè che fornisce aiuto e assistenza agli yacht in transito. Con disappunto veniamo a sapere che l'Harbour Master è cambiato, ma non così, per fortuna, la gentilezza e disponibilità del nuovo incaricato e dei suoi collaboratori. Ad uno di questi, infatti, il capo consegna le chiavi della propria auto per accompagnarci agli uffici della Custom, distanti circa 2-3 km.
L'ufficiale della Custom ritira la clearance interna che ci avevano rilasciato a Kavieng e ci consegna un certificato che attesta il nostro arrivo  a Vanimo, rimandandoci però al giorno della partenza per il ritiro della clearance di uscita dalla PNG; con sollievo apprendiamo che lui stesso potrà timbrare l'uscita sui nostri passaporti, evitandoci di passare dall'ufficio immigrazione. Forse questo ci aiuterà a farla franca!
Quando usciamo dall'ufficio della Custom realizziamo che il nostro autista non c'è più, se n'è andato senza dirci niente! Perplessi ci guardiamo intorno per capire come fare a tornare indietro, ma dopo un attimo un simpatico personaggio della Biosecurity ci offre il suo aiuto e ci porta prima al Consolato Indonesiano, e poi addirittura a fare acquisti.
Al Consolato sembra tutto facile: compiliamo qualche modulo, consegniamo copia della "sponsor letter" della nostra agente di Bali e del CAIT (permesso di navigazione in acque indonesiane, ottenuto sempre tramite la stessa agente). "Venite a ritirare il visto alle 14" ci dice l'impiegato.
Scarrozzati dal nostro "autista personale", facciamo un giro per i (piuttosto miseri) negozi. Vanimo è l'ultima città della Papua Nuova Guinea, a circa 50 km dal confine con l'Indonesia, ma non per questo diversa dalle altre viste in precedenza: alcuni supermercati cinesi, 2-3 negozi di ferramenta e casalinghi, un mercato grande ma povero, con molti banchi vuoti.
Le abitazioni sono sparpagliate nel verde fuori dal centro commerciale, ma un grande tabellone davanti al palazzo della provincia mostra il piano cinquantennale di sviluppo della città (2016-2066). Questa sì che è lungimiranza!
Rientriamo in barca per pranzare velocemente ed alle 13,45, sotto un'implacabile canicola, ci rechiamo a piedi al consolato indonesiano.
E qui inizia il calvario: un altro impiegato, di grado superiore, ci comunica che sono necessari documenti originali, o almeno delle copie a colori. "Ma non abbiamo originali, abbiamo ricevuto tutto via mail dalla nostra agente!" dice Lilli. "Tornate domani" è la laconica risposta, che ci lascia ancora una volta perplessi e un po' preoccupati.
Non ci perdiamo d'animo e nel frattempo organizziamo il rifornimento di carburante: con vento così scarso, ahimè, i consumi di gasolio sono alle stelle!!!
Il giorno successivo torniamo al Consolato. L'impiegato "superiore" ripete che non può accettare i nostri documenti, ma noi insistiamo che non abbiamo altro da produrre, e che i documenti sono validi, timbrati e firmati… Ci dice di aspettare. Una buona mezz'ora di attesa e poi veniamo fatti entrare in una saletta con un grande tavolo, per parlare con uno ancora più importante (che sia il console in persona?). Ci fa domande sullo scopo del nostro viaggio, ci assicura che l'Indonesia è felice di accogliere le barche, ma ... le procedure … bla, bla, bla. Vedendo che butta male, gli dico: "Per favore, ci aiuti!". Lilli gli mostra sull'I-Phone la mail ricevuta dall'agente, e la inoltra all'indirizzo del Consolato. Senza sapere come andrà a finire, veniamo rimandati alle panchine di attesa. Solo dopo un'altra ora veniamo chiamati allo sportello, dove finalmente ci consegnano i passaporti, con incollato il visto indonesiano. È fatta!!!!
Se ci va dritta anche con l'uscita dalla PNG, apriamo una bottiglia (l'ultima) di prosecco!
Mercoledì 17 agosto di buonora l'impiegato dell'Harbour Master ci riaccompagna alla Custom: in 10 minuti otteniamo la clearance di uscita e i timbri sui passaporti, senza alcuna difficoltà. Siamo liberi di partire!
Alle 9.30 salpiamo: perdiamo mezzora per lavare catena e ancora, intrise di fango, e mettiamo la prua su Jayapura, nostra prima meta Indonesiana, a 38 miglia.

NOTE PRATICHE PER I NAVIGATORI:
VANIMO HARBOUR: per motivi di sicurezza l'ancoraggio consigliato da altri navigatori è il più vicino possibile al molo, facendo attenzione a non intralciare le manovre delle navi: essendo una zona illuminata, è più difficile subire intrusioni a bordo e furti. In ogni caso è sempre consigliabile chiudere la barca quando si va a terra, e non lasciare in coperta niente che possa essere rimosso.
All'arrivo abbiamo chiamato via VHF il Port Controll per chiedere il permesso di ancorare: nessuna risposta, ma era domenica e sicuramente l'ufficio era chiuso. Abbiamo ancorato, senza problemi, nell'angolo SE di Vanimo Harbour (2°41.046'S 141°17.840'E); fondale di sabbia/fango, profondità sui 5-6 metri.
ATTERRAGGIO: per andare a terra col dinghy il posto più sicuro è a destra del molo, dietro al relitto, dove c'è anche uno scivolo un po' rovinato; non è comodissimo, perché con la bassa marea bisogna camminare sulle rocce, ma almeno si può lucchettare il dinghy al relitto.

FORMALITÀ: l'ufficio dell'Harbour Master si trova alle spalle del molo, seminascosto dai container; il cancello di ingresso è proprio a fianco dello scivolo suddetto.
La Custom si trova a circa 3 km, proseguendo sulla strada tra la spiaggia e l'aereoporto, al primo incrocio a sinistra, Best National Building; comunque presentandosi all'Harbour Master, c'è la possibilità di essere accompagnati in auto.
L'Immigrazione ha normalmente sede all'aeroporto, ma il timbro di ingresso o uscita si può ottenere dalla Custom.
Il Consolato è a circa 800 metri dal grande incrocio accanto al porto; è necessario compilare un modulo e allegare 2 foto tessera, e pagare 120 kina a persona (circa 36 €).
CARBURANTE: ci sono due compagnie  che vendono carburante in barili (drum) da 200 litri, oltre ad un paio di distributori dove si può far rifornimento con le taniche. Noi abbiamo utilizzato la compagnia più vicina al nostro ancoraggio (200 metri dopo l'Harbour Master), J.B. Distributors LTD. Abbiamo pagato 3,25 k/litro, il prezzo più caro in PNG, consegna dei barili sul molo, dove abbiamo accostato con la barca, previa autorizzazione dell'Harbour Master; sono attrezzati di pompa e filtro ed il personale fornisce assistenza per il travaso.

martedì 16 agosto 2016

PNG: NINIGO ISLANDS

1°23.530'S  144°10.723'E
Mercoledì 10 agosto, alle 6.30, salpiamo senza problemi dall'ancoraggio di Akib e alle 7.20 siamo già fuori dal West Passage, ampio e senza corrente; abbiamo 10 nodi di vento da sud, al gran lasco per la nostra rotta, ma anche una bella onda incrociata: al mascone di dritta, per il vento che ha soffiato nella notte, al giardinetto a sinistra per il vento attuale. Quando l'onda arriva a prua, la velocità scende fino a 4 nodi, per poi riportarsi lentamente sui 6.
La velocità media di 6 nodi ci è assolutamente necessaria per percorrere le 60 miglia della tappa ed arrivare con una buona luce: morale della favola, dobbiamo dare anche questa volta un aiutino col motore, per compensare i rallentamenti causati dall'onda.
Rimettiamo la traina con un nuovo polipetto di plastica colorata e verso mezzogiorno ecco il sibilo del mulinello; recupero con estrema facilità i primi 50 metri di filo, poi la preda comincia a tirare e a saltare fuori dall'acqua. È bel un pesce spada, ad occhio di un metro e mezzo, salta fuori  dall'acqua in verticale e scuotendo la testa cerca di sputare l'esca, uno spettacolo! Dopo 5-6 tentativi riesce a liberarsi: è stato bravo, si è guadagnato la libertà, sono quasi più contento che deluso. E come me Lilli, ovviamente, che parteggia sempre per i pesci.
Ormai possiamo vedere ad occhio nudo le altissime palme sulle isole che compongono il Ninigo Group. Lo scenario ricorda un po' quello delle Tuamotu. Qui si svolge ogni anno una grande regata di canoe a vela, di cui abbiamo saputo da altri navigatori e da internet; pare sia un avvenimento seguito ed importante, cui purtroppo non potremo assistere perché alla data fatidica (26 agosto) saremo già in Indonesia.
Aggiriamo a nord le Ninigo Islands e passiamo nel Mataran Passage, il canale che separa la barriera di Ninigo e Pelleluhu Islands, largo circa 500 metri e lungo 2,5 miglia. A vederlo sulla carta e sulle immagini satellitari è piuttosto impressionante, ma in realtà è facile da percorrere; sulle "Admiralty Sailing Directions" viene descritto come sicuro, con profondità minima 36 metri. Incontriamo alcune canoe a vela con giovani locali intenti alla pesca, che ci salutano calorosamente.
Anche noi, proprio verso la fine del canale, peschiamo una bel carangide sui 5-6 chili.
L'ancoraggio prescelto è quello consigliatoci da Bob, a nord di Longan Island; la cartografia  elettronica Navionics e C-Map non è di alcun aiuto (totalmente senza dettagli), solo l'immagine satellitare mostra una piccola apertura nel reef. Quando siamo a circa un miglio dalla pass, una canoa ci viene incontro e ci fa segno di fermarci; a bordo c'è Oscar, che ci dà il benvenuto e si offre di salire a bordo per pilotarci all'ancoraggio: ringrazio educatamente, ma declino l'offerta.
Avanziamo lentamente verso la punta est di Longan Island; la visibilità è discreta, abbiamo il sole alle spalle, ma dobbiamo fare un po' di gimcana tra macchie di reef affiorante. Nell'ultimo tratto un'altra canoa ci guida fino al punto in cui gettare l'ancora: siamo al centro di una piccola laguna contornata da reef, dove c'è posto alla ruota per una sola barca, il fondo è di sabbia sugli 8 metri, ma ci sono alcune patate di corallo piuttosto insidiose. Filiamo 40 metri di catena e mettiamo la solita boa a 30 metri, per tenere la catena sollevata dal fondo (1°13.129'S 144°17.707'E); in alternativa a questo, che è il punto più interno, circa 500 metri prima c'è un altro slargo sabbioso con profondità sui 12 metri.
Terminata la manovra, sono le 15.30; si avvicina la canoa che ci ha guidato all'ancoraggio, con a bordo Campbell e la figlia sui 13 anni. Ci dà il suo benvenuto porgendoci alcune banane ed una pentola ancora calda con della zucca cotta: "Per la cena", ci dice. Noi restiamo un po' sorpresi, non eravamo mai stati oggetto di tanta ospitalità, e per ricambiare gli regaliamo il pescato di un paio d'ore prima.
Poco dopo arriva un'altra canoa con a bordo due donne e due bambini, che chiedono di salire a bordo, porgendoci due papaie e una piccola anguria: sono la moglie di Oscar e sua cognata, e riconosciamo in loro le persone viste nelle foto  di Peter e Margareta, la coppia di australiani incontrati a Kavieng. Ancora parole di benvenuto, e l'offerta di aragoste, che i loro figli più grandi andrebbero a pescare per noi. "Sì, un'aragosta ci farebbe piacere!" dico io, così ci accordiamo che i ragazzi ci porteranno le aragoste in cambio di una bottiglia di whisky.
Le visite continuano anche il giorno dopo: Campbell, accompagnato dalla moglie Nellie e dal nipotino, si presenta con due cocchi freschi ed una grande pentola con dentro un pollo, spennato e pronto per essere cucinato. A parte l'orrore di Lilli alla vista del cadavere di pollo con zampe e tutto, siamo davvero colpiti da tanta gentilezza e generosità. Ci chiedono se possiamo andare a casa loro, sulla spiaggia a pochi metri, per dare un'occhiata al loro impianto elettrico, formato da pannelli solari, regolatore di carica e batterie, che ha qualche problema. "Volentieri, verso le 11 facciamo un giro" rispondo.
Arrivano i ragazzi di Oscar con 6 (dico, sei!) grosse aragoste: diamo loro la bottiglia di whisky (acquistata al duty free di Port Vila per 6 €) e se ne vanno soddisfatti. Per noi un nuovo lavoro: dobbiamo cuocere le aragoste al più presto, visto che il freezer ormai lo teniamo spento, per ridurre il consumo delle batterie. La giornata si preannuncia decisamente intensa!
A casa di Campbell il problema più grande è la batteria, regalatagli da una barca di passaggio: misura 9,5 V ed il pannello non riesce a caricarla, segno che ormai è andata. Gli offro una delle mie che ho scollegato, che non è in ottimo stato, ma sempre meglio della sua; gli regalo anche un regolatore di carica che non uso più, e lui si dimostra felice come una pasqua.
Campbell ci presenta la nipote, insegnante alla locale scuola primaria: giovane donna sulla trentina, sveglia e preparata, ha studiato a Lorengau e dopo alcuni anni di insegnamento in isole lontane è stata finalmente trasferita qui, nella sua isola natale. Molto gentile, ci accompagna a vedere la sua casa e ci presenta il marito, occupato a mettere a punto la canoa a vela per la regata.

Proseguiamo il giro fino alla scuola, dove registriamo sul libro degli ospiti la nostra presenza e conosciamo Justin, un altro giovane insegnante, che ci chiede se possiamo cambiargli delle Rupie, la valuta indonesiana, con delle Kine; ci accordiamo che venga a farci visita in barca nel primo pomeriggio.
Poco dopo il nostro ritorno in barca siamo nuovamente raggiunti da Campbell, che questa volta ci invita a cena a casa sua. Il fratello di Oscar viene a chiedere di caricargli il cellulare e di controllare un piccolo amplificatore (cinese) appena comprato e non funzionante, altri ancora a portarci frutta che non riusciremmo mai a mangiare e che quindi, scusandoci, rifiutiamo. Insomma la giornata prosegue senza un attimo di tregua, né d'altra parte possiamo rimandare i visitatori all'indomani, perché ci sposteremo a sud di Ninigo. Non so come, ma tra una cosa e l'altra riusciamo a cuocere, contemporaneamente su tre pentole, le sei aragoste!
L'ultima visita è quella di Oscar, che viene con la moglie e un'altra coppia di amici a portarci il "vero" Log Book dei navigatori di passaggio, avvertendoci che eventuali altri libri che ci venissero mostrati non sono validi. Anche qui non possiamo non notare una certa competizione tra i locali, in particolare tra Oscar e Campbell. Il primo trova a ridire perfino sul luogo di ancoraggio indicatoci dal secondo (troppo piccolo per la nostra barca), lui ci avrebbe condotto in un'area più ampia e sicura! Ovviamente noi facciamo finta di niente e manteniamo una posizione equidistante, mostrandoci con tutti gentili e grati.
Oscar, come tutti qui, è presissimo dalla regata delle canoe a vela: è molto orgoglioso della sua canoa lunga 9 metri e vuole a tutti i costi vincere la competizione, i cui premi tra l'altro sono in denaro, messo a disposizione dal Governo.
Concludiamo la densa giornata con la cena da Campbell, alle 18.30. Hanno apparecchiato una tavola sulla spiaggia, e riservato per noi i piatti e le posate più belle. Veniamo ancora una volta ringraziati per i doni e per il controllo dell'impianto; prima di iniziare la cena Campbell dice una preghiera in cui chiede al Signore di proteggere anche noi, durante il nostro lungo viaggio.
Il mattino seguente salpiamo, mentre dalla spiaggia la famiglia di Campbell ci saluta sbracciandosi; siamo diretti a Mal Island, la più meridionale delle isole del gruppo, a 15 miglia. Seguendo la mappa satellitare percorriamo il passaggio tra Meman Island e Logan Island verso sud, fondale minimo 10 metri; poi, finalmente a vela con 15 nodi di vento da ESE, proseguiamo all'interno della grande laguna, profonda e senza pericoli.
Ancoriamo nella parte occidentale di Mal Island, su un fondale di sabbia sui 14 metri (1°23.530'S 144°10.723'E).
Come ci avevano annunciato i "velisti" di Longan, troviamo un'altra barca a vela ancorata poco distante. È per noi un evento straordinario, in questa stagione: finora di barche ne abbiamo incontrato una a Kavieng, una ad Alotau, due ad Honiara. Recandosi a terra, i nostri "vicini" passano a salutarci: sono americani, Philip e Leslie, lui di origini italiane (cognome DiNuovo). La loro barca si chiama Carina, di cui abbiamo letto alcuni report su Noonsite; provengono dalle Filippine e proseguiranno per la Micronesia; si fermano alle Ninigo per la regata, sono in stretto contatto col comitato organizzatore e intendono mettere a disposizione ulteriori premi (cime, strumenti per la pesca etc) per i primi classificati.
Purtroppo l'incontro si limita a quattro chiacchiere e scambi di informazioni: per noi, domani,  un'altra alzataccia all'alba, per raggiungere la nostra ultima destinazione in Papua Nuova Guinea, Vanimo, a 200 miglia. 

lunedì 15 agosto 2016

PNG: HERMIT ISLANDS

1°31.850'S 145°01.917'E
Passata senza inconvenienti la notte a Lorengau, sabato 6 agosto alle 8.40 salpiamo diretti al gruppo  delle Hermit Islands, a 160 miglia.
Percorriamo una quindicina di miglia all'interno della barriera di Manus, controllando i bassi fondali sulla carta, abbastanza dettagliata, sulla mappa satellitare di Sas Planet, e ovviamente con occhi e binocolo; usciamo dalla laguna alle 11.00, tra Hus Island e Oneta island. 
In assenza di vento, navighiamo a motore a basso regime, 1500-1600 g/min, in modo da contenere il consumo di carburante a 3 litri/ora, velocità media 6 nodi.
Durante la notte incrociamo nuovamente la rotta delle navi dirette e provenienti dalla Cina: 6 navi nell'arco di due ore. Fortunatamente grazie all'AIS vediamo in anticipo l'incrocio, a quale distanza avverrà, fra quanto tempo; abbiamo impostato il sistema in modo che emetta un allarme per incroci con distanza inferiore a 2 miglia, nel qual caso può essere utile chiamare la nave per confermare o correggere la rotta. In pratica un giochino che aiuta a stare svegli, e a far passare il tempo della guardia!
Alle 10.15 di domenica 7 agosto varchiamo la West Entrance, molto ampia e facile, senza corrente;  le Hermit sono un gruppo di isole circondate da un'unica barriera, di forma quasi circolare; proseguiamo all'interno della laguna per circa 10 miglia, fino a Carola Bay, a sud di Luf Island, dove c'è il villaggio principale del gruppo.
Da distante, con emozione data la rarità dell'evento, vediamo che nella baia è ancorata un'altra barca …  ma una volta vicini realizziamo che è in stato di abbandono e senza l'albero di maestra. Facciamo un giro di perlustrazione e ci rendiamo subito conto delle difficoltà di ancoraggio: dove sulla carta è segnata sabbia le profondità sono tra i 35 e 42 metri, fino in prossimità del reef costiero; le coordinate che abbiamo ricevuto dagli amici di A-Gogo sono su un fondale di 10 metri, pieno di coralli e patate, proprio dove si trova barca abbandonata. Abbiamo letto che alcuni navigatori passati di qui consigliano di mettere uno spezzone di catena intorno ad una testa di corallo e fare una ritenuta con una cima a poppa. Alla fine della nostra esplorazione scegliamo il posto che ci sembra meno peggio, a NE, nel punto più lontano dal villaggio, dove diamo fondo sui 16-18 metri, poca sabbia, coralli per fortuna bassi, filando 60 metri di catena (1°31.168'S 145°05.299'E).  
Mentre cercavamo l'ancoraggio si era avvicinata una canoa con a bordo Ben, sulla quarantina,che ci dice di essere da un paio d'anni delegato ad accogliere gli yachts; gli promettiamo di andare al villaggio nel  pomeriggio, ma in realtà abbiamo bisogno di un po' riposo, poi alle 17 c'è il collegamento radio con gli amici navigatori italiani, quindi rimandiamo la visita all'indomani.
Il mattino seguente scendiamo a terra col dinghy e troviamo ad accoglierci Frieda, una cordiale donna sulla cinquantina. Ci comunica che Ben è impegnato e ci fa strada fino alla sua casa, dove ci presenta la sorella  Loise. Noi sapevamo già di loro dal blog di Adina, una barca inglese passata di qui lo scorso gennaio, che le descriveva come simpatiche e divertenti: è proprio vero!
Ci fanno sedere vicino ad un tavolino ed aprono davanti a noi il grosso volume del "Visitor Book".
Lilli tenta di cominciare dal fondo, dai messaggi più recenti, ma viene subito bloccata:  "No, comincia dall'inizio!". Cavoli, l'inizio è nel 2004! La lettura comunque non è affatto noiosa, perché le due ironiche sorelle aggiungono commenti e smorfie quasi ad ogni pagina. Ci sono disegni, foto di barche e di persone; ad un certo punto Loise sbotta: "Questo tizio con la faccia spiritata era un bianco, sposato con questa bellissima donna africana; è stato qui qualche giorno, un mattino è partito senza dire niente ed ha lasciato a terra la moglie. Noi l'abbiamo ospitata fino a quando
la poveretta, grazie ad una barca di passaggio, ha potuto raggiungere Port Moresby, dove ha raccontato la sua vicenda alla polizia. La polizia ha fatto le sue indagini, ha rintracciato la barca del marito ad Honiara, nelle Salomon, ha concordato con la polizia di Honiara di bloccare l'imbarcazione ed ha spedito la donna in aereo, costringendo il marito a riprendersi la moglie!"
Loise sembra molto compiaciuta del finale di questa storia, mi guarda fisso negli occhi e sorridendo mi dice: "Tu non farai come quello, vero?"
Chiediamo informazioni sulla barca abbandonata. "È di un australiano" risponde Frieda "è stato qui qualche settimana nel 2012, poi un giorno è partito verso ovest, ma ha trovato brutto tempo, ha disalberato ed è tornato indietro. Quando è passata la nave ha lasciato qui la barca ed è tornato in Australia, dicendo che sarebbe tornato, ma ormai sono passati 4 anni e temo che non lo vedremo più..."
Finita la lettura del libro, le nostre ospiti ce lo consegnano affinché possiamo scrivere anche noi, con calma, in barca e dispongono sul tavolo i loro "doni": papaie, banane, una grossa zucca, uova fresche, tutto di loro produzione. Noi in cambio lasciamo braghette e maglietta da bambino, una camicia da adulto, un kg di riso, sapone da bucato e filo da pesca.
Ci riaccompagnano al dinghy, dandoci appuntamento nel pomeriggio per la restituzione del libro.
Torniamo in barca sotto un cielo plumbeo, è già ora di pranzo ma non posso rimandare un lavoro importante: cambiare lo zinco dell'elica, completamente consumato. Metto le bombole e scendo in acqua, seguito da Lilli che non volendo perdermi di vistasi rimane in superficie a guardarmi con la maschera. Il lavoro è presto fatto; approfitto dell'immersione per controllare la catena: a circa 25 metri di profondità la catena fa un angolo retto intorno ad una bassa testa di corallo. Memorizzo la direzione, per quando salperemo.
Dopo pranzo scriviamo il nostro pezzetto sul log book, e notiamo che sulla copertina c'è scritto: "Gli yacht che vogliono aiutare la comunità sono invitati a versare 20 kina per l'ancoraggio e 10 kina per il diving" (complessivamente 10 €).
Quando torniamo a terra nel tardo pomeriggio, a riceverci oltre a Frieda c'è anche Ben, col quale ci scusiamo per il mancato incontro del giorno prima. Lui sorride benevolo ma subito prende in consegna il libro ed il nostro obolo di 30 kina, a ribadire il suo ruolo; Lilli, come per chiedere conferma, rivolge lo sguardo su Frieda, che alza le spalle e fa un ironico cenno di assenso. Ci sembra di cogliere una sorta di rivalità e di gelosia su chi debba tenere le relazioni con i visitatori...
Nel frattempo il cielo si fa sempre più nero, minaccia di piovere, così ci congediamo salutando calorosamente il piccolo gruppo di persone che si erano avvicinate incuriosite alla spiaggia.
Il tempo è decisamente cambiato: nella notte abbiamo numerosi scrosci di pioggia, il vento  cambia spesso direzione facendoci ruotare di 360°. Con il pensiero rivolto alla nostra catena intorno alla testa di corallo, mi alzo ogni ora per annotare la direzione della prua della barca e cercare di capire che giri poteva aver fatto la catena.
Il mattino, dopo colazione, con Lilli ripassiamo la dinamica dell'ancoraggio e tutte le evoluzioni che si sono verificate: sono abbastanza convinto che la catena faccia ancora un angolo di 90° o al massimo di 150° intorno alla testa di corallo, perciò si tratta di far ruotare la barca al massimo di 180°, visto che il vento è debole. Incrociando le dita, iniziamo subito le operazioni per salpare.
Riesco a far ruotare la barca nella direzione voluta, ma quando recupero catena il verricello si blocca sempre nello stesso punto...  "O cacchio" penso "e se tutti i miei calcoli fossero sbagliati?"
Faccio un altro tentativo calando altri 10 metri di catena e rimettendola nuovamente in tiro con la marcia indietro, poi tolgo la marcia ed inizio a recuperare. Siamo fortunati, anche questa volta come era successo a Nuakata Island, la catena si libera dal corallo e l'ancora viene su. Tiriamo un sospiro di sollievo, la prospettiva  di ridiscendere a 25 metri con le bombole non sorrideva affatto né a me, e né a Lilli!
Ci spostiamo all'interno della laguna sia per avvicinarci al punto di uscita che useremo domani, sia perché incuriositi da un sito in cui, abbiamo letto, si possono vedere numerose ed enormi mante. Si tratta del canale tra Luf Island e Akib Island, Hyane Passage detto anche Manta Ray Pass: un passaggio largo circa 100 metri, non ben dettagliato sulla cartografia, ma  visibile sull'immagine satellitare. La profondità minima al centro è sui 13 metri (la cartografia ne indica 7).    
Superata la pass, proviamo un ancoraggio subito ad est, sui 13 metri, segnalato da Adina, ma ci rendiamo conto che è troppo vicino al reef affiorante e non si vede il fondo.
Ci spostiamo ad ovest della pass, seguendo la costa e troviamo a nord di Akib un fondale sugli 8-10 metri, con piccoli  tratti di sabbia e coralli, ma qui almeno la visibilità è ottima.
Caliamo l'ancora e 40 metri di catena (1°31.850'S 145°01.917'E); memori dell'esperienza precedente, per evitare che la catena vada ad incattivarsi intorno a qualche corallo fissiamo in corrispondenza dei 30 metri una grossa boa, che la tenga in parte sollevata dal fondo.
Abbiamo percorso sole 6 miglia, abbiamo tutta la giornata davanti, ma il tempo è ancora instabile e non invoglia a fare escursioni a nuoto o col dinghy. Verso ora di pranzo viene a trovarci Bob, "operatore turistico ufficiale" per le isole Hermit, che già conoscevamo attraverso i numerosi messaggi di apprezzamento e ringraziamento lasciati per lui sul Log Book da numerosi navigatori. Sulla sessantina, fisico atletico, abita con la moglie e il figlio minore proprio sulla Manta Ray pass, mentre gli altri 4 figli ormai grandi e sposati vivono a Lorengau.
Bob ci dice subito che per vedere le mante non è una giornata buona, non c'è una buona luce e l'acqua è torbida; in compenso ci offre di copiare le foto delle mante e i filmati che ci ha portato su una chiavetta usb. Incredibile, lo si vede aggrappato al dorso della manta, trascinato in acque profonde, senza bombole e in apnea a 25 metri di profondità!
Bob è originario di Ninigo, il gruppo di isole che è la nostra prossima meta, e naturalmente ci fornisce utili informazioni sugli ancoraggi. Poi ci racconta un po' la sua vita: da giovane lavorava su piccole navi per il trasporto della copra, quando uno zio gli combinò il matrimonio con una donna di Luf, che lui nemmeno conosceva; suo padre acconsentì e lui non ebbe scelta: si sposò e si trasferì a Luf, cambiando radicalmente vita, dedicandosi a fare da guida per le barche di passaggio e per i turisti del diving.
Gli chiediamo cosa ne pensa della malavita di Lorengau, visto che lui ci va spesso: ci dice che da un paio d'anni le cose sono cambiate, i politici sono cambiati, vogliono sviluppare il turismo e sono più attenti al comportamento della gente verso le barche di passaggio. 
Congediamo Bob e per ringraziarlo della visita e della interessante chiacchierata gli regaliamo una maglietta, due piccole torce (cinesi, ahimè) ed alcuni ami.
Verso sera il vento gira a NW, con alcune raffiche a 22-25 nodi, ma l'ancoraggio si rivela ben protetto anche da quella direzione, grazie ad un lungo ed esteso reef.
Il mattino seguente sveglia prima dell'alba: dobbiamo salpare appena fa luce per raggiungere il Ninigo Group, a 60 miglia.

sabato 13 agosto 2016

PNG: le foto di PAK e MANUS

Tsoi Vuka
Lo stupendo ancoraggio di Pak Island



Il nostro “personale” relitto e i coralli poco distanti da Refola




Isola di Manus: la spiaggia di atterraggio ed il mercato di Lorengau, che stava chiudendo.


martedì 9 agosto 2016

PNG: NEW HANOVER - PAK ISLAND - MANUS

2°04.456'S 147°35.657'E
Martedì 2 agosto salpiamo da Kavieng; per me e per Lilli inizia una nuova fase del nostro viaggio, di nuovo soli a bordo dopo quasi tre mesi. Francesco e Luciano sono stati ottimi compagni di navigazione, molto collaborativi e di compagnia, ma non ci dispiace nemmeno ritrovare un po' della nostra intimità.
Una breve tappa di 30 miglia e siamo all'isola di New Hanover: ancoriamo a SW di Tsoi Vuka Island sulla barriera NE di New Hanover, buon ancoraggio su sabbia in 7 metri (2°25.560'S 150°24.502'E). La cartografia Navionics è spostata circa 400-500 metri verso nord, e ci posiziona molto lontani dal reef in acque profonde, mentre la cartografia C-Map è corretta.
New Hanover è il proseguimento geografico di New Ireland, due isole più grandi separate da decine e decine di isolette e reef. Con un po' di attenzione ed una buona luce si può navigare ovunque, sarebbe bello fermarsi e provare i diversi ancoraggi possibili, ma noi abbiamo una tabella di marcia serrata e la sosta per la notte è stata programmata per ridurre la lunghezza della tappa successiva.
Riprendiamo infatti la navigazione il giorno successivo. Alle 7.15 salpiamo per Pak Island, a 173 miglia. Purtroppo il vento è latitante: proseguiamo a motore a basso regime, mantenendo comunque una media sui 6 nodi. Alle 20.00 riprendiamo i turni di guardia di tre ore, che Lilli ed io abbiamo sempre adottato senza alcuna difficoltà.
Giovedì 4 agosto, alle 12.10, arriviamo a nord di Pak Island. Ancoriamo nel canale che separa quest'ultima dall'isolotto Ulunai, su un fondo di sabbia di 6 metri (2°04.875'S 147°35.657'E).
Ancoraggio stupendo, con un'acqua eccezionalmente limpida, una visibilità sott'acqua di almeno 30 metri; c'è una leggera corrente verso ovest, variabile da 0,5 a 1 nodo.
Dopo il rituale controllo della posizione dell'ancora, Lilli ed io facciamo un po' di snorkeling: poco distante dalla barca. Con emozione ci accorgiamo che quella che da bordo sembrava una grande patata, a circa 50 metri dal nostro ancoraggio in direzione isolotto, è invece un relitto completamente coperto dal corallo! A fatica si distinguono il passauomo squadrato al centro della coperta ed i longheroni laterali, è incredibile come il corallo attecchisca e si sviluppi sul metallo, facendolo diventare un unico ammasso roccioso.
Nel primo pomeriggio viene a trovarci con la sua canoa a bilanciere James, sui 35 anni; abita nel villaggio subito dietro il pontile di cemento che si affaccia nel canale (dove - ci dice - c'è fondo sufficiente per attraccare con la barca); lavora come carpentiere a Lorengau, città sull'isola di Manus distante circa 20 miglia, dove resta tutta la settimana rientrando a casa nei week end; in barca a motore, il viaggio è di circa due ore. Questa settimana ha chiesto un permesso speciale per un importante funerale.
Ci racconta un po' di cose sulla sua bellissima isola: oltre il suo, ci sono altri quattro villaggi; molta parte è occupata da piantagioni di palme da cocco, realizzate quando queste terre erano colonie tedesche, ed ora tornate alla gente del posto; in zona si trovano molte tartarughe, che depositano le uova nella vicina Tong Island; nel reef di Ulunai invece ci sono le aragoste; non sa dirci nulla del relitto, quando lui è nato era già lì . James si sente fortunato a vivere in questa oasi di tranquillità, che senz'altro lui preferisce alla città: la comunità è autosufficiente e quando c'è bisogno di acquistare qualcosa i locali partono al mattino per Lorengau, dove si trova tutto, e ritornano la sera stessa.
Dopo un po' di queste piacevoli chiacchiere diciamo a James che per noi è ora di riposare un po', abbiamo una notte di navigazione alle spalle e l'indomani siamo di nuovo in partenza.
Anche Pak Island meriterebbe una sosta di qualche giorno almeno, ma noi dobbiamo procedere verso ovest, abbiamo ancora molta strada e tanti posti da vedere... Un po' malvolentieri, quindi,
venerdì 5 agosto lasciamo questo incantevole ancoraggio per raggiungere Lorengau; usciamo dal canale verso ovest, profondità minima sui 10-15 metri per circa 1 miglio.
Purtroppo l'assenza di vento ci costringe ancora a motore.
Entriamo nella barriera che circonda a NW l'isola di Manus tra le isole Hawei e Ndrilo, passaggio utilizzato anche dalle navi; alle 12.40 ancoriamo a circa 500 metri dal centro cittadino, appena ad est di una vasta secca segnalata da 2 beacon verdi, fondo fangoso ed acque torbide sui 6 metri (2°04.456'S 147°16.671'E). Un contrasto più evidente con il precedente ancoraggio non ci poteva essere!
Manus è l'isola più grande del gruppo denominato Admiralty Islands. Siamo nella più settentrionale delle 20 provincie della Papua Nuova Guinea, che comprende le Admiralty e i gruppi delle Hermit e Niningo Islands, 200 miglia ad Ovest di Manus.
Lorengau è il capoluogo; abbiamo letto sui blog di altri naviganti che questo è un posto da evitare, molta delinquenza e rischio di furti e rapine; d'altra parte questo problema è comune a molte, se non a tutte, le città: Honiara alle Salomon, Alotau e Rabaul in PNG hanno tutte una pessima fama.
I locali dicono che la criminalità sia alimentata soprattutto dai giovani che scelgono di abbandonare i loro villaggi di origine per cercare fortuna in città; come succede anche da noi, finisce poi che non trovano lavoro e, lontani dal controllo delle comunità tradizionali, imboccano la cosiddetta "cattiva strada". Insomma, bisogna stare all'erta.
Nel pomeriggio vado a terra da solo, mentre Lilli rimane in barca (di guardia!); atterro con il dinghy sulla spiaggia, dove ci sono decine di barche a motore provenienti dalle isole vicine. Sarà a causa delle ruote che mi permettono di tirare in secca il dinghy facilmente, da solo, ma tutte le persone intorno mi guardano come se fossi un marziano! Tolgo la chiavetta dell'accensione e chiedo dov'è il mercato. "Qui dietro", mi risponde una bella signora. Mi avvio, incrociando le dita e sperando di ritrovare il gommone al mio ritorno.
Molta gente per le strade, alcuni con aspetto poco rassicurante; sono le 16 e tutti i supermercati cinesi stanno chiudendo, anche al mercato ortofrutticolo, peraltro molto bello e grande, stanno ritirando la merce dai banchi. Acquisto al volo due papaie ed un ananas, metto il naso dentro due supermercati per trovare qualcosa di nuovo, senza successo. Torno alla spiaggia e con sollievo vedo il mio dinghy, tutto intero, attorniato da ragazzini curiosi.
Rientro in barca e poco dopo veniamo avvicinati da una barca a motore: è Paul, che vende frutta e ortaggi al mercato, e ora sta tornando alla sua isola. Ci chiede se abbiamo bisogno di frutta. Io sono alla radio nel collegamento serale con gli altri navigatori italiani, Lilli risponde che non abbiamo bisogno di niente, allora Paul chiede di poter salire a bordo e fare due chiacchiere. Il suo modo di fare non incute timore e Lilli lo lascia salire. Dopo qualche minuto li raggiungo in pozzetto: Paul parla un buon inglese, alla nostra domanda sulla sicurezza ci dice che dove siamo non c'è pericolo, la zona è illuminata e c'è anche un peschereccio ancorato vicino. "Recentemente non si sono verificati danni a barche di passaggio", dice, ma noi sappiamo che gran poche barche si fermano qui! Dopo mezz'ora, poco prima del buio, Paul finalmente ci lascia.
Per noi è ora di alzare la guardia, sgombrare coperta e pozzetto da tutto quello che può essere rubato, chiudere dall'interno i gavoni e prepararci per la notte. Dopo una lauta cena, naturalmente!

venerdì 5 agosto 2016

PNG: KAVIENG

2°34.848'S 150°47.309'E
Navigazione praticamente tutta a motore da Kalili Harbour a Kavieng, se si esclude un'ora a vela sotto cupi nuvoloni e qualche piccolo tratto con le vele aperte per un contributo di 1 nodo di velocità.
Venerdì 28 luglio, poco dopo l'alba, imbocchiamo verso nord lo Steffen Strait, dove il traffico delle navi è regolato a senso unico alternato; dopo 4 miglia, dirigiamo la prua a 80°, nel Nusa Channel, verso Kavieng.
Tutto il percorso è ampio, ben segnalato e non crea alcuna difficoltà; alle 9.50 siamo a Kavieng Harbour e caliamo l'ancora su un fondale di 15-16 mt di sabbia, circa 600 metri a nord del molo delle navi (2°34.848'S 150°47.309'E).
In realtà l'ancoraggio segnalato da altre barche passate di qui si trova mezzo miglio a SW, ad est di Nusalik Island, dove c'è anche un resort ospitale con gli yachts, ma dovendo recarci alla dogana, e sbarcare Luciano di notte (il suo aereo parte alle 6 del 1° agosto), preferiamo ancorare più vicino possibile alla città.
Vicino a noi è già ancorato un catamarano: una coppia di simpatici australiani, con i quali organizziamo subito un meeting serale per l'aperitivo.
Peter e Margareta sono più o meno nostri coetani, vengono dalla Tasmania, navigano da circa quattro anni, ora stanno tornando dalle Filippine e sono sulla via del ritorno ad Hobart.
Margareta deve rientrare a casa per un breve periodo, prenderà lo stesso aereo di Luciano per Port Moresby; poiché il check in inizia alle 4, concordiamo di fare un unico trasbordo a terra con il nostro dinghy.
Kavieng è il capoluogo dell'isola e della provincia di New Ireland. Si trova nell'estrema punta NW dell'isola; l'area portuale, aperta a nord e a sud, è racchiusa tra la costa di New Ireland ad est e le isolette Nusa e Nusalik ad ovest. Ci sono 4 moli accessibili per gli yachts, provenendo da sud il primo è il molo dei pescatori, il secondo è il molo di scarico delle navi cargo, il terzo è un molo governativo ad uso dei locali, il quarto è il molo del mercato; su tutti ci sono almeno 4 metri di fondo; al molo delle navi, per attraccare, bisogna chiedere preventivamente l'autorizzazione al Port Control e pagare una tassa di ormeggio.
Per atterrare con il dinghy, il posto migliore e più vicino alla città è a fianco del molo del mercato, dove fermano i pulmini collettivi che fanno servizio verso il centro; nella "Up Town" come la chiamano qui, 5-6 supermercati cinesi, 3-4 negozi di hardware e qualche ufficio governativo sparso qua e là. Questa è la "città", e perfino il mercato ortofrutticolo è piccolo e povero di prodotti: restiamo un po' delusi, ci aspettavamo qualcosa di meglio.

La Custom si trova nello stesso cortile di "Gas Origin", dove ricaricano le bombole; la prima volta non ci è stato facile trovarla, perché nessuno o quasi sapeva dove o cosa fosse.
L'impiegata della dogana, una donna sulla quarantina della serie "Voglia di lavorare saltami addosso", avrebbe meritato di essere filmata: in un ufficio incasinato fino all'inverosimile, con carte ammucchiate per terra un po' ovunque, siede ad una scrivania anch'essa ingombra di carte; per cercare un documento, la lady faceva qualche tentativo alzando un mucchietto qua e là, con movimenti lenti e invidiabile flemma, uno sbadiglio dietro l'altro, la penna infilata nei capelli arruffati.
Aspettiamo pazientemente che ci presti attenzione (la vediamo molto impegnata a guardare il soffitto), e finalmente eccola scomodarsi dalla sua postazione e venire al banco: ritira il nostro permesso di navigazione compilato ad Alotau e ci dice di tornare il giorno della partenza per avere quello nuovo.  
Chiediamo se si può fare il rifornimento di gasolio con l'esenzione delle tasse ed anche per quello ci dice di ritornare il giorno prima della partenza.
A Kavieng entrambe le compagnie per la distribuzione del carburante, la Puma e la Island Petroleum, hanno sede vicino al molo delle navi cargo; la fornitura avviene con barili (drum) da 200 litri,  che vengono consegnati ad uno dei moli; in alternativa si possono riempire le proprie  taniche al distributore, nella Up Town. Purtroppo il prezzo del gasolio a Kavieng è del 40% più caro rispetto a Rabaul, che applica tariffe più basse perché è il principale porto di smistamento per la PNG.
Con la Island Petroleum concordiamo la fornitura di 200 litri, ma il documento che la pigra signora della Custom ci aveva dato per l'esenzione delle tasse non è valido. Rimane da decidere dove farcelo consegnare: ci rechiamo a prendere informazioni agli uffici dell'autorità portuale, che gestisce il molo di scarico delle navi. Dopo un complicatissimo calcolo, la lady del Port Controll ci dice che dobbiamo pagare 97 kina (circa 35€) per un'ora di sosta; la lasciamo dicendo che ci avremmo pensato ed eventualmente richiamato; al ritorno in barca, apprendiamo che ai nostri amici australiani l'autorità portuale, recandosi a bordo con una pilotina, ha richiesto il pagamento di 200 k per l'ancoraggio, mentre a noi non hanno chiesto nulla! Boh, chi ci capisce qualcosa è bravo!
Un'altra cosa che ritenevamo semplice e si è rivelata invece complicatissima è la prenotazione del taxi per Luciano e Margareta. Prendendoci per tempo, già il venerdì abbiamo fermato un taxi per prenotare la corsa notturna all'aeroporto: ci dà un numero di telefono da chiamare, e ci raccomanda di precisare che abbiamo preso accordi con il taxi n. 2.  Semplice, no? Ma quando chiamiamo, il giorno successivo, a quel telefono risponde una segreteria telefonica, peraltro complicatissima, dove si poteva solo lasciare un messaggio, senza ricevere alcuna conferma! A questo punto non siamo tranquilli, e andiamo a cercare un altro taxi: anche qui ci viene dato un numero di telefono (diverso dal precedente), che proviamo a chiamare immediatamente ed il tassista, lì davanti a noi, risponde. Ora sì che siamo a posto, pensiamo, e ci lasciamo con l'accordo di chiamare la mattina stessa della partenza, lunedì 1° agosto alle 3.45.
La domenica scorre tranquilla, tra lavori di manutenzione (cambio olio e filtri del motore e del generatore) e pulizia della carena.
La mattina del lunedì, alle 3.45, telefoniamo al secondo tassista e con sgomento troviamo … un'altra segreteria telefonica! Senza molta speranza lasciamo un messaggio chiedendo di essere richiamati, nel frattempo passiamo a prendere Margareta e Peter. È buio pesto e al molo di taxi neanche l'ombra. Luciano è già deciso a incamminarsi a piedi, sono circa 2 km e si è scaricato la mappa del percorso, ma per fortuna passa un pulmino dell'ospedale, che si ferma e dà un passaggio ai nostri amici fino all'aeroporto. Tutto bene quel che finisce bene!
Per quanto riguarda il gasolio, alla fine evitiamo il molo gestito dall'autorità del porto e usiamo invece (gratuitamente) il pontile governativo, il terzo provenendo da sud, per fare rifornimento, dove ci attacchiamo in seconda fila all'inglese ad un grosso barcone da pesca. Il rifornimento avviene con una pompa a mano portatile che pesca nel barile ed un lungo tubo per arrivare al nostro serbatoio. Nonostante avessi raccomandato alla compagnia di portare un tubo lungo almeno 12 metri, si sono presentati con uno di 2 metri soltanto... neanche il tempo di reclamare, l'equipaggio del barcone ha messo insieme tratti di tubo per coprire la distanza, assistendoci anche nel travaso!
Martedì 2 agosto lasceremo Kavieng per una piccola tappa di 30 miglia, fino all'isola di New Hanover.