venerdì 29 luglio 2016

PNG: MIOKO ISLAND, KALILI HARBOUR

3°26.380'S 151°56.080'E
Domenica 24 luglio lasciamo Rabaul diretti al Duke of York Group, un piccolo arcipelago a 24 miglia, formato da 13 isole che racchiudono una laguna.
Percorse a motore le 10 miglia di uscita dalla baia di Rabaul, navighiamo con un bel vento sui 15-16 nodi, al traverso, e in due ore siamo alla pass est, Matnauru Passage; abbiamo il sole alto alle spalle e si distinguono bene i fondali, entriamo a vela in acque sicure e profonde fino alla baia ad ovest di Mioko Island; alle 12.20 caliamo l'ancora davanti al villaggio, su un fondale di 8-9 metri, con sabbia chiara (4°13.762'S 152°27.379'E).
Il posto è splendido e ben riparato: la laguna è calma e trasparente, verso SW si vede la barriera corallina, si sente il rumore del mare che frange, con il sole i fondali intorno prendono tutte le colorazioni dal blu intenso all'azzurro chiaro, dal verde intenso al verde chiaro.
Si avvicinano timidamente due canoe di ragazzini, che rimangono ad una certa distanza e solo quando Lilli li saluta sorridendo si decidono ad avvicinarsi. Notiamo nel loro comportamento un rispetto ed una educazione, che per esempio i ragazzini delle Trobriand non avevano. "I like Coke" dice uno di loro, il più piccolino; Lilli gli porge una lattina e poco dopo il più grande, sempre dalla canoa e quasi scusandosi, chiede: "Possiamo andare, madam?" Altro che alle Trobriand, dove per mandarli via bisognava quasi cacciarli a forza giù dalla barca!
Quando scendiamo a terra Jack, un giovane sulla trentina, ci fa da guida attraverso il paese: belle case con tanto spazio curato intorno, tutti ci salutano, spesso ci danno la mano, ma non abbiamo stormi di ragazzini che ci inseguono.
Ci sono le scuole materne ed elementari, due chiese, la Cattolica e la United Church; è domenica e la maggior parte della gente è a casa; molti qui, compreso Jack, lavorano a Kokopo, partono il lunedì e rientrano al villaggio il venerdì sera.
Nelle isole del gruppo ci sono diverse piantagioni di palme da cocco, i locali ci dicono che sono di proprietà delle due chiese presenti, ed i proventi vanno alle loro sedi centrali.
Il giorno seguente facciamo un giro con il dinghy fino alla barriera sud per vedere i coralli, ma c'è ancora vento sui 15-18 nodi e un po' di onda, così torniamo verso la pass est, a nord di Mioko, dove troviamo bei coralli in acque calme.
Prima di partire chiediamo alla gente del villaggio se possiamo avere delle banane e papaie: il nostro desiderio viene esaudito immediatamente, per due caschi di banane e tre papaie spendiamo 30 kina (circa 10€) e un kg di riso.
Per la bellezza del posto e la cortesia e discrezione degli abitanti, raccomandiamo Mioko Island davvero caldamente a tutti i velisti che navigano da queste parti.
All'alba di martedì 26 luglio salpiamo per una tappa di 60 miglia, fino a Kalili Harbour, sulla costa sud occidentale dell'isola di New Ireland, che si affaccia nel mare di Bismark. Usciamo dalla laguna del Duke of York Group attraverso Unurum Passage, la pass di NW, ben cartografata sia da C-Map e da Navionics, con profondità mediamente sui 10 metri.
Purtroppo siamo costretti a dare motore: solo 6 nodi di vento, in poppa, che annullano anche il vento apparente di velocità. In pratica mare piatto e zero vento, sotto un sole che picchia; per tentare di difenderci montiamo il tendalino grande, ma il caldo è comunque asfissiante.
La nostra meta è una piccola baia chiusa dal reef, cui si accede tramite un passaggio largo circa 70  metri, orientato sui 50°. Arriviamo verso le 15: il sole è ancora alto, alle nostre spalle, ma oscurato dalle nuvole sotto costa. In pratica non si vede un tubo, il mare rispecchia il grigio del cielo e non si riescono a distinguere i colori, solo grazie a piccole onde che frangono riusciamo ad individuare  tratti di reef affiorante. A complicare l'atterraggio provvedono le cartografie Navionics e OpenCPN, entrambe spostate di 0,6 M verso NW. Su entrambi i sistemi registriamo la traccia, che mostrano Refola che naviga a terra! Per fortuna la C-Map invece è corretta, ed abbiamo una buona immagine satellitare che ci dà la certezza delle acque sicure.
Avanziamo lentamente all'interno della baia verso est per circa 500 metri, fino ad arrivare in prossimità di un piccolo molo in cemento, piuttosto fatiscente, caliamo l'ancora su 15-16 metri d'acqua, ottimo fondo di sabbia (3°26.380'S 151°56.080'E).
Dal molo un giovane si sbraccia per salutarci, e cerca di parlare, ma per la distanza non si capisce cosa vuol dire, dopo poco lo vediamo arrivare in groppa ad un tronco d'albero, pagaiando con le mani. Chiede di salire a bordo, come si fa a negarglielo? Victor ha 23 anni; gli chiediamo come mai non ha una canoa, ci risponde che sia la sua che quella di suo padre sono rotte, e ci vuole molto tempo per costruirne una nuova. Poiché abbiamo a bordo due canottini (tipo quelli per bambini), gli chiediamo se ne vuole uno e lui si mostra molto felice. Facciamo due chiacchiere, tra le altre cose ci racconta che da queste parti per sposarsi bisogna che i genitori dei due "fidanzati" prima diano il consenso, poi  si accordino sulla dote e sulle spese della festa. Qui sono le donne, per tradizione, a possedere la terra, e spesso lo sposo deve pagare somme ingenti alla famiglia della sposa, a volte anche 1000 Kina (350 €). Per fortuna, dice Victor, qui da noi sono sufficienti 200-300 kina.  Ascoltiamo con interesse, pensando che non troppo tempo fa le nostre tradizioni non erano molto diverse, a parte la proprietà della terra alle donne!
È ormai buio quando Victor decide di tornare a terra; non è mai stato su un canotto e non si fida molto, domanda : "ma è sicuro?" Esita a lungo prima di mollare la presa sulla barca, poi prende coraggio e, fra il divertito e il preoccupato, inizia a pagaiare di braccia verso la spiaggia.
Il mattino seguente ci avvicina una canoa. "C'è una festa al villaggio, e saremmo felici se voi partecipaste!" Insomma, un invito ufficiale! Lilli, reduce da una notte di febbre dovuta probabilmente ad un colpo di calore, preferisce restare in barca; andiamo Luciano ed io.
È una festa importante, con tanto di palco per le autorità, una cosa davvero difficile da immaginare in un piccolo villaggio di 150 abitanti.  Quando atterriamo col dinghy una sorta di "cerimoniere" viene ad accoglierci porgendoci il benvenuto alla "Festa delle mangrovie".  Subito gli consegniamo il nostro presente  per il villaggio, un martello con due scatole di chiodi zincati di diverse misure ed un kit di pronto soccorso, che il "cerimoniere" mostra di apprezzare molto.
C'è molta gente, anche dei villaggi vicini, i bambini indossano la divisa della scuola primaria; è la seconda edizione di questa festa, che ha lo scopo di promuovere la protezione e lo sviluppo delle mangrovie, piante che noi reputavamo infestanti ed invece sono utili non solo per impedire l'erosione delle coste, ma anche perché creano un habitat idoneo per pesci a rischio di estinzione. Qui la comunità ha creato una piccola serra per la coltivazione di piccole mangrovie, che una volta cresciute vengono trapiantate in acqua, in bassi fondali.
Dal palco, uno speaker la cui voce è amplificata da altoparlanti (!!!) presenta le autorità: circa 6-7 persone tra personaggi politici venuti in auto da Kavieng ed i chief dei villaggi vicini. Prima che salgano sul palco, a ciascuno di loro un gruppo di donne dona una ghirlanda di fiori. Poi i bambini della scuola elementare cantano l'inno nazionale, mentre viene innalzata la bandiera della Papua.


Infine le autorità si alternano al microfono, parlando in uno stile "politico" non dissimile da quello cui siamo abituati in Italia; alcuni di loro esprimono un ringraziamento per la nostra presenza, in quanto "ospiti internazionali". Mentre siamo in ascolto e anche noi applaudiamo come tutti, un locale ci chiede se conosciamo la loro lingua locale: "Assolutamente no, solo qualche parola, ma i discorsi dei politici sono uguali in tutto il mondo", rispondo, mentre il nostro interlocutore fa un cenno di assenso  e ride divertito.
Verso la fine degli interventi inizia a piovere; in quanto "ospiti internazionali", veniamo invitati sul palco, protetto da una tettoia, dove è stato preparato un rinfresco.
Ci intratteniamo un po', poi salutiamo le autorità, il chief del villaggio e facciamo ritorno in barca.
Dobbiamo infatti partire il pomeriggio stesso: ci aspetta una navigazione notturna, di 118 miglia, fino a Kavieng, capoluogo di New Ireland.

sabato 23 luglio 2016

PNG: NEW BRITAIN, RABAUL

4°12.477'S 152°10.658'E
Martedì 19 luglio alle 8.00 salpiamo da Boimago Island.
La nostra destinazione è la baia di English Cove, sulla punta sud dell'isola di New Ireland, a circa 250 miglia; per affrontare questa tappa abbiamo atteso la finestra più duratura di vento favorevole: la previsione dei grib files ci dà vento fino a circa metà percorso, poi dovremmo passare attraverso un'area temporalesca, che rappresenta un'incognita.
Dopo le prime 24 ore con vento fresco e velocità media superiore a 7 nodi, per evitare un atterraggio notturno decidiamo di allungare il percorso di 40 miglia, fino a Rabaul, sull'isola di New Britain.
Il secondo giorno abbiamo un temporale dietro l'altro, ma proseguiamo a vela fino al pomeriggio, quando il vento cala lasciando un'onda fastidiosa, costringendoci a dare motore per alcune ore.  Verso sera il mare si appiattisce e torna un vento leggero, che ci sospinge gentilmente.  All'alba del 21 luglio, avanzando lentamente a 3-4 nodi accompagnati dal dolce sciabordio su un mare ormai piatto, entriamo nella grande baia di Rabaul; alle 7.15 ancoriamo davanti al Rabaul Yacht Club, sulla parte NE della baia. Il fondale è di sabbia e fango, con buona tenuta, sui 7-8 metri (4°12.477'S 152°10.658'E). 
Ci sono una quindicina di boe libere e un pontile in legno con 3 barche a motore ed una barca a vela un po' in disarmo.

Quando andiamo a terra, con il dinghy, prendiamo le prime informazioni dalla ragazza del bar dello Yacht Club. L'ancoraggio è gratuito e sicuro, l'area è illuminata e guardianata, le boe ed il pontile (con acqua e corrente) sono a pagamento: tariffa "una tantum", senza limiti di tempo, di 200 kina (circa 70€); per andare in città c'è un pulmino collettivo che fa servizio continuativo, costo 1 kina.
In città, vicino al porto, c'è un bel mercato, con settori dedicati ad artigianato, frutta e ortaggi; sulla via principale, numerosi supermercati di stile "cinese", cioè che vendono un po' di tutto, ma non quello che cerchiamo noi: formaggi, olio d'oliva, pasta.
Per il rifornimento di carburante c'è la Islands Petroleum che consegna, senza sovrapprezzo,  bidoni da 200 litri fino al pontile dello Yacht Club; purtroppo a noi servono solo 170 litri, perciò abbiamo rimandato l'acquisto in attesa di procurarci altre due taniche di scorta.
Per il gas da cucina, ancora una volta non riusciamo a rifornirci: si può solo fare il cambio con bombole dello stesso tipo.
Nella seconda guerra mondiale Rabaul è stata un'importante base giapponese; lo testimoniano ancora oggi i numerosi relitti sparsi in tutta la baia. A circa 800 metri dallo Yacht Club, sulla strada che porta in città, c'è un piccolo museo e sulla collina, a circa 2 km, un belvedere con una lapide posta dai giapponesi in memoria dei caduti.

Sulla grande baia si affacciano 3 vulcani, di cui uno ben visibile sul lato est, ancora in attività con fumarole che escono dal cratere. Proprio quest'ultimo nel 1994 ha avuto una forte eruzione che ha sommerso di cenere l'intera città, metri e metri che arrivavano fino ai tetti delle case. Da allora la città è stata ripulita, ma molta gente si è trasferita nella ansa sud della baia, a Kokopo, che da allora è diventato di fatto il nuovo capoluogo dell'isola.
Kokopo si raggiunge in poco meno di mezz'ora, con il pulmino collettivo (linea n.1A, prezzo 3 kina, circa 1€); il 22 luglio Lilli ed io andiamo a visitarla: un bellissimo e fornitissimo mercato, pulito e ordinato, strade e parcheggi, molta gente, insomma quasi una vera città. Oltre ai soliti supermercati cinesi, con piacere ne troviamo anche uno "vero", come piace a noi occidentali: si chiama "Anderson", e si trova circa 1 km dopo il capolinea del pulmino che proviene da Rabaul.
Il 23 luglio, io e Luciano andiamo di nuovo a terra per comprare un po' di verdura, e passando davanti alla grande chiesa cattolica ci fermiamo per fare due chiacchiere col parroco, che ci avevano detto essere italiano. Troviamo invece Padre Ernesto, un giovane prete argentino che  parla un buon italiano e ci fornisce un po' di notizie interessanti. La comunità cattolica è numerosa, attualmente il vescovo si è spostato a Kokopo, ma prima dell'eruzione del 1994 la cattedrale era questa: era stata costruita subito dopo la guerra e infatti, anche se oggi avrebbe bisogno di riparazioni, dalle lavorazioni di pavimenti e colonne, dall'imponenza si vede che è stata una chiesa importante.
Chiediamo del vulcano, se è tranquillo: l'eruzione più devastante è stata nel 1937, quando sono nati i 3 vulcani presenti ora nella baia, compreso uno emerso improvvisamente dal mare.
Oggi, dopo l'ultima eruzione del 1994, Rabaul sopravvive perché c'è il porto commerciale, di cui Kokopo è sprovvista. Sulla collina c'è una stazione vulcanologica che monitorizza tutti i vulcani della PNG; tutte le settimane una squadra di tecnici compie rilevazioni per prevedere nuove attività sismiche. C'è una bella escursione di circa 2 ore sulla montagna; da lassù, dove fa anche un po' fresco, si domina tutta la baia ed anche i vulcani.
Chiediamo informazioni su atti di violenza o furti ai danni delle barche di passaggio, di cui abbiamo letto su Noonsite: ci risponde che Rabaul è tranquilla, non gli risultano atti di questo tipo, ed effettivamente anche la nostra sosta qui conferma le sue parole.
Domani, 24 luglio, piccola tappa di 25 miglia fino a Mioko lsland, nel Duke of York Group.

mercoledì 20 luglio 2016

PNG: KAILEUNA ISLAND – BOIMAGA ISLAND

8°24.406'S 150°53.076'E
Venerdi 15 luglio, alle 8.15, salpiamo da Vakuta Island; senza problemi attraversiamo l'area senza dettagli sul plotter, dove abbiamo un fondale minimo di 8 metri, fino al canale cartografato, con fondale minimo sui 16 metri. Dopo 25 miglia arriviamo a Kiriwina Island, la maggiore delle Trobriand; vediamo con il binocolo la grande antenna delle telecomunicazioni, infatti al negozio Digicel ci avevano informato che qui la zona era servita con internet.
Sono le 12.30 e siamo in prossimità di Boli Point; il posto è protetto da NW a NE, ma non è adatto al SE, perché con 6 miglia di fetch può montare una bella onda. Al momento abbiamo vento da ESE, sui 14 nodi, quindi possiamo permetterci una breve sosta. Caliamo l'ancora su 6-7 metri di fondale sabbioso (8°33.357'S 151°00.890'E).
Il tempo di pranzare, scaricare la posta, spedire l'aggiornamento del blog, e alle 14.50 ripartiamo per Kaileuna island, a 8 miglia, nostra destinazione finale.
Nel frattempo il cielo si copre di nuvoloni grigi, in un attimo si scatena una pioggia torrenziale, che riduce la visibilità a qualche centinaio di metri; l'ancoraggio, segnalatoci da A-Gogo, è sulla parte nord di Kaileuna, in prossimità del villaggio Tauwema,  ma il vento che è rinforzato con il temporale viene da NE. Il posto non sembra fornire una adeguata protezione, tuttavia proviamo ad avvicinarci a terra: i fondali restano profondi (40 metri) fin vicino alla riva. Non è proprio il caso di fermarci, quindi proseguiamo per altre 3 miglia, arrotondando l'isola verso ovest, dove l'immagine satellitare ci indica un'apertura tra reef affioranti, in prossimità del villaggio Kaduaga.
Nell'impossibilità di navigare a vista, dato che la visibilità è pessima, piloto controllando la posizione della barca su Sas Planet, facendo rotta verso terra; ancoriamo quando l'ecoscandaglio segna 7 metri, su sabbia (8°30.382'S 150°55.387'E).
Sono le 16.45 quando finiamo la manovra, ma siamo provati come se avessimo fatto un atterraggio notturno, e per di più bagnati come pulcini. La pioggia continua incessante fino a notte alta, ma finalmente, quando spunta il sole, il cielo è tutto azzurro e sgombro di nuvole.
È sabato, ragazzi e bambini non vanno a scuola; infatti, già a partire dalle 7 del mattino inizia la processione di canoe: prima una, poi due, poi quattro … non finiscono mai! Sono tutti curiosi di vedere la barca, alcuni portano qualche melanzana, piccoli pomodori, fagiolini, e in cambio chiedono CARAMELLE! Facciamo l'errore di permettere a qualcuno di salire e prima di renderci conto abbiamo a bordo una ventina di ragazzini!



Verso le 10 cacciamo giù tutti per andare al villaggio; nella confusione, ci accorgiamo che dal cruscotto sono spariti un accendino e gli occhiali da sole di Luciano, mentre un pacchetto di sigarette è stato addirittura trafugato dalla sua cabina! Chiudiamo la barca e tutti i gavoni, ed andiamo a terra.
Con la bassa marea bisogna lasciare il dinghy a circa 300 metri da riva, e camminare fino a terra con l'acqua alle caviglie.

Troviamo ad accoglierci Peter, che si qualifica come Chief, ma non abbiamo capito di quale villaggio. Addirittura ci dice di essere in corsa per diventare "Paramount Chief", capo supremo, quando sarà morto l'attuale.
Proprio il giorno precedente era stata commemorata la morte del Chief di Kaduaga; un grande evento che riecheggiava anche nell'isola di Vakuta, da dove siamo venuti.
Il villaggio è molto grande, circa 1500 abitanti. Peter ci accompagna nella strada principale, ai cui lati si affacciano i "negozi", in realtà  capanne più piccole delle normali abitazioni, dove i locali mettono in mostra i vari prodotti dei garden (patate, tuberi, noci di betel, banane), e inoltre stoffe di colori sgargianti; sotto una tettoia di palme, alcune donne sono intente a lavorare con una macchina per cucire manuale, tipo la Singer della nonna.
Vicino alla riva, ci sono 3-4 sorgenti di acqua dolce che sfociano in mare, dove gli abitanti hanno ricavato altrettante pozze, per fare il bagno e lavare i panni.
In questa passeggiata siamo contornati da decine e decine di bambini, che ridono divertiti: molti di loro, o forse tutti, non hanno mai visto persone di pelle chiara.

Quasi tutti gli adulti ci salutano da lontano, alcuni si avvicinano per stringerci la mano; andiamo fino alla chiesa, di culto metodista, ampia, senza sedie né panche, ma dotata di generatore. Qui la  nostra guida ferma tre donne che portavano in testa una ghirlanda di fiori, gliele sequestra e ci "incorona" solennemente.
Mentre facciamo ritorno al dinghy, dopo questo bagno di folla, Peter, la nostra guida, ci chiede di poter venire con noi per vedere la barca e così siamo di nuovo seguiti dalle canoe dei ragazzi festanti, che in un secondo sono tutti a bordo.

Qualche mamma ci fa recapitare una teglia di  pesciolini arrostiti, che condividiamo con tutti i presenti. Solo verso ora di pranzo, con fatica, riusciamo a stare un po' tranquilli.
Per tutta la giornata osserviamo, in prossimità del reef, molte canoe intente alla pesca, con un metodo che non avevamo mai visto prima: le canoe accerchiano un branco di pesce azzurro tipo piccole sarde da 5 cm, il pescatore scende in acqua con la maschera e con 2 rudimentali retini acchiappa nel mucchio, il pesce è abbondante e perciò la pesca è ricca.
La processione di canoe continua, meno intensa, anche il giorno seguente, domenica 17 luglio. Non lasciamo più salire i ragazzini, e a qualche adulto venuto a vedere la barca o a proporre qualcosa in cambio di riso o di zucchero, raccontiamo dei "furtarelli" subiti, si mostrano molto dispiaciuti e continuano a scusarsi... Insomma, a parte l'invadenza dei ragazzini, la gente si mostra gentile ed ospitale ed il posto è davvero molto bello: un ancoraggio riparato con acqua limpida, che merita sicuramente una sosta.
Lunedì 18 luglio, per assicurarci un po' di tranquillità, ci spostiamo di 7 miglia fino a Boimaga Island, una delle tante piccole isole che contornano a NE la vasta area delle Lusancay Islands. Alcune sono del tutto disabitate, alcune hanno solo piccoli villaggi, altre sono frequentate saltuariamente, per la pasca o per i cocchi, da gente dei vicini villaggi di Kaileuna.
Ancoriamo a NW di Boimaga, su un fondale di sabbia di 7-8 metri (8°24.406'S 150°53.076'E).
Due canoe di pescatori si avvicinano e ci offrono delle aragoste, delle quali dicono che la zona è piena; ne abbiamo prese 5 in cambio di 7 kina (circa 2,5 €), qualche amo da pesca e un paio di pantaloni usati.
Questa di Boimaga è l'ultima tappa alle Trobriand Islands, domani ci aspetta un bel tappone di 250 M, fino alla New Ireland.

giovedì 14 luglio 2016

NUAKATA ISLAND - VAKUTA ISLAND

8°51.313'S 151°08.303'E
Quando salpiamo da Alotau sono le 9.30 di lunedì 11 luglio: dobbiamo percorrere circa 40 miglia, di cui almeno metà controvento, rinforzato peraltro sui 16 nodi. Per un attimo penso di rimandare la partenza, perché una velocità ridotta rischia di farci arrivare a Nuakata con poca luce, ma poi prevale la voglia di lasciare Alotau.
Facciamo un lungo bordo a motore, con la randa cazzata, fin quasi a sfiorare la costa sud di Milne Bay, poi viriamo e riusciamo a tenere anche il genoa, con rotta sull'isola di Nuakata.
Nuakata si trova ad est di Alotau, ed è contornata da una barriera. La particolarità è che la rotta delle navi in transito sulla direttrice nord sud di questo tratto di Pacifico attraversa in senso longitudinale l'intera laguna. Le navi usano le due pass che si trovano a nord e a sud, noi invece entriamo attraverso il Dangedu Channel, a NW, segnalato da una coppia di beacon (entrando,  rosso a destra  e verde a sinistra).  Il passaggio non crea alcuna difficoltà, è profondo e ben segnalato. La laguna è disseminata di bassi fondali, di cui solo alcuni segnalati, ma la cartografia  Navionics e C-Map è sufficientemente dettagliata.
Alle 16.45 giungiamo ad Haliwa Una Bay, sulla parte settentrionale di Nuakata; le profondità sono sui 18-20 metri fin quasi a riva, dove si vede affiorare il reef, l'acqua è discretamente pulita, ma non si vede il fondo.
Dopo un giro di perlustrazione, diamo fondo su 20-22 metri d'acqua; dalla presa presumo di  aver beccato un tratto sabbioso, ma nel brandeggio si sente la catena passare sul corallo. L'ancoraggio è ben ridossato, senza onda, solo qualche raffica passa sopra l'isola e arriva in baia (10°16.491'S 151°00.594'E).
Inizia subito la girandola delle visite: in breve Refola è attorniata da una decina di canoe, provenienti dal vicino villaggio.
Come sempre la nostra prima domanda riguarda i coccodrilli, ed anche qui la risposta è “Si, ci sono, ma sono timidi”; quasi tutte le canoe portano qualcosa da scambiare: ortaggi, frutta, anche belle conchiglie. In cambio di un paio di papaie e un po' di fagiolini, distribuiamo qualche pacco di riso e zucchero; facciamo due chiacchiere con James, un giovanotto gentile che è arrivato per primo, e solo all'imbrunire tutte le canoe ritornano a terra.


Il giorno dopo, martedì 12 luglio, passiamo una giornata tranquilla, senza scendere a terra; poiché la prossima tappa è di circa 100 miglia, programmiamo di partire verso sera. 
Alle 16.30 iniziamo a salpare: dopo aver recuperato pochi metri di catena, quando abbiamo il segnale dei 60 metri sul musone, ci rendiamo conto che la catena è incattivata, non viene su neanche a pagarla. Dopo vari tentativi di recupero, da diverse direzioni, siamo sempre bloccati nello stesso punto; in barba ai coccodrilli, provo a scendere una decina di metri in apnea, ma non riesco a vedere il fondo. La luce sta ormai diminuendo e cominciamo a pensare di dover aspettare l'indomani, per andare sotto con le bombole e vedere come uscirne.
Ma prima di rassegnarmi, faccio un ultimo tentativo: calo altri 10 metri di catena, fino a 70, metto in tiro, poi comincio a recuperare trascinato in avanti dalla catenaria, senza dare motore … evviva! passiamo il punto critico e senza altri intoppi recuperiamo tutta la catena. Sono le 17.15.
Mentre innesto la marcia indietro per mettere la prua verso il largo, si accosta una canoa con a bordo una persona di mezza età che mi chiede se abbiamo avuto difficoltà con il reef.  Credendo che volesse solo partecipare al nostro problema, gli rispondo affermativamente, ma poi ritorno ad occuparmi della manovra; nel frattempo il tizio si attacca alla battagliola e dice a Luciano che gli dobbiamo dei soldi, perché abbiamo rovinato il reef! Io faccio un gesto per dire che è matto e accelero, fino a che, in piedi sulla canoa, il tipo molla la presa. Prova a inseguirci pagaiando con forza per cinquanta metri, poi finalmente si convince che il suo facile guadagno è sfumato!
Alle 20.10 usciamo dalla barriera attraverso l'ampio Goschen Strait, ad est di Nakuata, spegniamo il motore e facciamo rotta verso nord, con il vento al lasco e tutte le vele a riva.
La nostra rotta è parallela al traffico navale nord-sud, circa 10 miglia più ad ovest; vediamo con l'AIS sul plotter decine di navi che si inseguono e si incrociano, sentiamo al VHF alcune chiamate per confermare il “Port to Port” .
La notte scorre tranquilla e verso le 9.30 del mattino affrontiamo la pass adiacente a Tabuia Point, l'estremità SW di Vakuata, che ci immette nella laguna; procediamo con cautela, perché la cartografia ha scarsi dettagli sui fondali; la visibilità è discreta, con qualche passaggio nuvoloso. Il fondale minimo nella pass è di 6 metri, poi proseguiamo su profondità medie di 9-10 metri, che si riducono a 6-7 sopra qualche macchia di reef.
Ancoriamo a circa 400 metri dalla costa sud, su un fondale esteso di sabbia chiara sui 7 metri, finalmente acqua limpidissima e ottima visibilità (8°51.313'S 151°08.303'E).
Il posto è isolato, la baia è molto ampia ed il villaggio si trova a circa 1,5 miglia sul lato NE; ciononostante una barca a motore e poi alcune canoe a vela ci raggiungono e chiedono il permesso di accostarci per parlare un po'.
Tutti molto gentili, non sono venuti per vendere sculture o scambiare ortaggi, ma solo per sentire da dove veniamo, dove siamo diretti. Ci invitano a visitare il villaggio, che ha persino “negozi”; sono fieri della loro isola, ci raccontano che hanno tutto di che vivere: pesce nella laguna, frutta, cocchi, ortaggi,  e inoltre … non ci sono i coccodrilli.



Vakuata Island è la più a sud delle Trobriand Islands: leggendo sul portolano di Alan  Lucas (1980), che lui aveva addirittura evitato di visitare queste isole, perché i venditori di sculture erano troppo insistenti e aggressivi, eravamo un po' prevenuti sull'atteggiamento dei locali, invece per la prima volta abbiamo trovato una calda accoglienza senza secondi fini.  
L'ancoraggio è piacevole, ventilato ma protetto. Il 14 luglio ci concediamo una giornata di (si fa per dire) riposo: piccole manutenzioni, completata la pulizia della carena, reciproco taglio di capelli tra me e Lilli.
Domani, venerdì 15 luglio, proseguiamo nelle Trobriand: scopriremo se la nostra prima impressione era giusta, o se aveva ragione il vecchio Lucas.  

ALOTAU

10°18.548'S 150°26.998'E
Lasciata Hemoe Bay la mattina di mercoledì 6 luglio, attraversiamo con cautela le prime 6 miglia di area non rilevata ("not surveyed"), usciamo dalla barriera e facciamo rotta su Alotau, porto di entrata in Papua Nuova Guinea.  Abbiamo il vento al lasco, leggero ma sufficiente per navigare a vela fino a destinazione.
Alotau sia affaccia su Milne Bay, grande e profonda baia ad est della Papua; alle 14.40 chiamiamo al VHF il Port Control, che ci autorizza ad ancorare in prossimità dell'Alotau International Hotel. Sulla cartografia elettronica è segnalato un Airways Wharf, che in realtà è un bar/discoteca, pertinenza dell'hotel, con una terrazza che si prolunga nella baia. Le profondità sono elevate, ma al centro della piccola baia si riducono a 16-17 metri, con fondo di sabbia/fango (10°18.548'S 150°26.998'E).

Per scendere a terra col dinghy si può usare lo scivolo privato dell'hotel, subito ad ovest del bar/discoteca; ci sono agenti di sicurezza 24 ore su 24, e attraversando l'hotel si accede alla via principale della cittadina.
Il pomeriggio stesso iniziamo la trafila per le pratiche di ingresso: gli uffici di dogana e immigrazione si trovano, uno di fronte all'altro, al primo piano di una costruzione dall'altra parte della strada (circa 200 metri a sinistra del cancello dell'International Hotel). Entriamo prima in dogana, dove veniamo ricevuti da Mattew: con fare cortese ci  sospinge fuori dall'ufficio, dicendo che  prima di tutto occorre vedere gli agenti della Quarantena (per la salute delle persone a bordo) e della Biosecurity (per lo stato di "salute e pulizia" della barca). Questi uffici si trovano al porto commerciale, ma lui può accompagnarci con la sua auto. Prima di salire in macchina, si fa consegnare la Clearance delle Solomon, la crew list e una fotocopia del documento di registrazione di Refola. Restiamo un po' sorpresi da tanta gentilezza e disponibilità...
Con l'ufficio della Biosecurity facciamo presto, compiliamo un modulo e ci accordiamo di portare i 56 kina dovuti (circa 20 €) l'indomani, dopo essere andati in banca; più lunga è invece l'attesa della signora Judith, che dovrà attestare il nostro stato di salute. Per aspettarla Mattew ci conduce nel suo secondo ufficio, accanto alla Capitaneria: due sedie sgangherate, pile di carte per terra, una scrivania simile ad un piccolo banco di scuola. Dopo una buona mezz'ora finalmente ci raggiunge Judith, che ci guarda, dice che stiamo bene, ci autorizza ad ammainare la bandiera gialla: domani mattina dovremo recarci nel suo ufficio, poco distante, pagare 50 kina e ritirare la "Health clearance".
Ritornando in macchina verso l'International Hotel, Mattew ci comunica che a lui dobbiamo pagare 150 kina (50€). "Ok – diciamo noi – domani preleviamo e te li portiamo in ufficio". "Ma no – fa lui – vi  accompagno io in banca, così mi pagate subito".
Qui la cosa comincia a puzzare, ma ormai siamo in ballo, e facciamo buon viso.
Ci porta in due banche diverse, perché non riusciamo a prelevare: le nostre carte di credito in certi paesi sono bloccate ed occorre attivarle o dal sito internet della banca o con una telefonata all'assistenza clienti. Mentre diciamo a Mattew che deve rassegnarsi ad aspettare domani per l'incasso, ricevo una telefonata dall'efficientissimo servizio di assistenza clienti di Fineco, che in pochi minuti mi sblocca la carta di credito. Procediamo al prelievo, mentre Mattew è sempre in macchina ad aspettare … ci riaccompagna all'International Hotel (notare che tutti questi giri, insieme, fanno un paio di kilometri) e quando gli porgo le due banconote da 100 kina, restando in attesa del resto, il nostro amico con semplicità ci dice che ha messo a disposizione l'auto, ha fatto telefonate per noi, ci ha fatto da agente, quindi il resto è mancia...
Siamo perplessi, anche un po' incazzati; Lilli nel registrare le spese scrive: 150 kina tassa doganale, 50 kina furto doganale. Ma il meglio deve ancora venire...
L'indomani Lilli, a piedi, fa il giro degli uffici Quarantena e Biosecurity: paga e riceve regolare quietanza. Sulla strada viene intercettata da Mattew il quale, alla richiesta di ricevuta  per il pagamento del giorno prima, un po' contrariato chiede: "Ma la vuoi proprio? A che ti serve?" Lilli è incredula e risponde: "Sempre, quando paghiamo una tassa, ci viene rilasciata la ricevuta!". Riluttante,  Mattew la porta nel fatiscente ufficio del porto e in un'unica copia, su un foglio di carta scrive di suo pugno: "Pagamento di 150 kina , per agente doganale a disposizione". Ora è tutto chiaro: i soldi se li è intascati lui! (al ritorno in barca, Lilli correggerà la registrazione delle spese: 200 kina furto doganale).
A rasserenarci un po' sulla burocrazia locale provvede Ivan, ufficiale dell'immigrazione: molto gentile, ci dice che il visto di ingresso si può ottenere unicamente alla capitale, Port Moresby (dove noi non andiamo), ma che non dovremmo avere alcun problema se la nostra permanenza in Papua sarà di 30 giorni. Se dovessimo andare oltre questo limite, basterà avvisare un qualunque ufficio immigrazione. Allo scopo, ci fornisce il suo biglietto da visita di servizio, con n. di cellulare e e-mail, ed anche il numero di cell del suo collega di Vanimo. Il tutto sorridendo e senza chiederci una kina: grazie Ivan, ci hai davvero risollevato il morale!
Dedichiamo il resto della giornata alla cambusa; la maggior parte dei negozi sono concentrati a due passi dall'International Hotel: tre grandi supermercati, l'immancabile "hardware" cinese , farmacia ed empori con casalinghi e abbigliamento; poco distante, vicino alla stazione degli autobus, il mercato ortofrutticolo.
Non riusciamo a ricaricare le nostre bombole camping gas; in taxi siamo andati al distributore  principale, a circa 4 km dalla città, ma qui usano attacchi australiani per i quali non abbiamo un adattatore, speriamo di essere più fortunati in Indonesia.
Gli "autobus" sono camion, con il cassone attrezzato con panche e telone di copertura, che coprono le lunghe distanze; per la città e dintorni ci sono i soliti minibus (furgoncini) collettivi.

Il servizio telefonico e internet è ottimo, acquistiamo una sim-card Digicel: 100 kina (circa 35€) per sim-card, 1,5 giga di traffico dati per un mese e un po' di credito telefonico locale.
Un giorno dopo di noi, arriva un'altra barca a vela: è un evento, in questi mari così scarsamente frequentati dai velisti. È un ketch con bandiera inglese, cala l'ancora proprio accanto a noi e ci chiama poco dopo al VHF, per avere alcune informazioni sulle pratiche di ingresso.  Invitiamo Douglas (questo è il nome dell'unica persona a bordo) per un aperitivo su Refola; è un personaggio particolare, tipico inglese, e marinaio con la M maiuscola: ha lavorato come  comandante di grosse navi da diporto, girando mezzo mondo; ora, con meno impegni di lavoro, naviga per lo più da solo, sulla sua barca "Cavatina"; la moglie lo raggiunge a periodi, per una vacanza; è arrivato dall'Australia ed è diretto a Singapore.
La sera dopo lo invitiamo a cena: ci mostra alcune fotografie delle navi che ha comandato e della sua "casa", una "house-boat" di cui ha fatto costruire lo scafo, provvedendo in proprio all'allestimento interno. La tiene sul Tamigi, poco distante da Londra. Parliamo anche del recente referendum nel Regno Unito, per l'uscita dalla Comunità Europea; lui, tramite la moglie, ha votato "exit", i figli "remain". Una serata piacevole.
Purtroppo, prima di lasciare Alotau, abbiamo bisogno della clearance doganale, che dimostri il nostro ingresso in Papua Nuova Guinea: per evitare di ricapitare nelle grinfie di Mattew, Luciano ed io passiamo dall'ufficio Custom in città chiedendo se possiamo ritirare lì il documento. Purtroppo, ci dicono che dobbiamo rivolgerci proprio a lui (d'altra parte, oltre ai nostri soldi, ha anche i nostri documenti). Tanto per avere conferma dei nostri sospetti, chiedo se è prevista una tassa per la dogana: "Assolutamente no!" è la risposta. "Ma noi abbiamo pagato 200 kina a Mattew..."  butto lì; il suo collega fa un sorriso molto eloquente ... ok, ricevuto, e per evitare che la cosa prenda una brutta piega aggiungo "Beh, probabilmente abbiamo pagato un servizio".
Nel pomeriggio Lilli ed io, previo appuntamento telefonico, andiamo da Mattew al suo "ufficio" del porto per ritirare il permesso di navigazione: è venerdì pomeriggio. "Quando volete partire?" ci chiede. "Sabato, appena terminata la spesa" dice Lilli, già immaginando che ci avrebbe chiesto soldi per una partenza domenicale. Mattew compila la clearance, e ci chiede 50 kine.
A questo punto Lilli perde le staffe ed eccedendo un po' nei toni, risponde che non dobbiamo proprio nulla, che abbiamo pagato la sua gentilezza a sufficienza etc etc. Lui si incazza a sua volta, si riprende la clearance e ci minaccia: "Bene, allora quando siete pronti per partire, chiamatemi, io verrò al molo dove verrete a prendermi col dinghy, compilerò la clearance a bordo e poi mi riporterete a terra. Naturalmente ci sarà un supplemento da pagare...".  Nella discussione, che stava davvero per trascendere, viene fuori che lui sapeva della nostra visita del mattino all'ufficio in città, e forse aveva ricevuto qualche tirata d'orecchio. Prima che Lilli gli metta le mani addosso,  con il mio maccheronico inglese provo a dirgli "Senti, sei stato molto gentile a scarrozzarci in giro, per questo ti abbiamo già dato 200 kine; non pensi sia abbastanza? perché rovinare tutto?". Dopo qualche attimo di esitazione, finalmente, Mattew molla la presa: "Va bene, c'è stato un malinteso, tutti abbiamo parlato troppo, prendete la clearance e andate". Forse timoroso di una nostra nuova visita all'ufficio in città, più volte ci stringe la mano, continuando a blaterare sul "malinteso".
Questa la nostra esperienza, peraltro simile a quella fatta tre anni fa dagli amici di A-Gogo: per chi ci dovesse arrivare in questa località, consiglio di evitare se possibile i servigi di Mattew!
Sabato 9 luglio, dopo aver comprato ancora un po' di provviste, decidiamo di spostarci di circa 2 miglia ad ovest di Alotau, in una piccola baia in prossimità del Driftwood Resort; il posto ci è stato segnalato dagli amici di A-Gogo, che nel 2013 vi hanno trovato una buona accoglienza.
Il nostro programma è di restare fino a lunedì mattina, per poi tornare ad Alotau a completare la cambusa di birra e vino (il cui acquisto è vietato dal venerdì alla domenica).
Nella baia i fondali sono profondi 30 metri; una simpatica e bella ragazza che sembra fare da manager ci fa segno di accostare all'inglese al grande pontile. In bassa marea, alla minima, ci sono 2 metri di acqua, e noi infatti sfioriamo con la chiglia il fondo di  sabbia.

Il posto è piacevole. Chiediamo se  si paga per l'ormeggio, "Devo chiamare il titolare, che non è qui, vi farò sapere" dice la manager. Verso le 16, Lilli ed io andiamo al ristorante del resort, leggiamo il menù, già pregustando una cenetta davanti alla barca; chiediamo alla ragazza se ha parlato con il titolare: "Ehm, sì, sono 200 kina a notte (circa 70€)...". "Mi sembra una cifra esagerata - dico io - se vi va ceniamo qui, con l'ormeggio gratis, altrimenti ce ne andiamo". "Provo a risentire il titolare". " Faccia presto perché non vogliamo ripartire con il buio".
Passano 30 minuti e la risposta non arriva: leviamo gli ormeggi, la manager ci saluta da lontano con un sorriso, come dire "Pazienza!", ma noi, forse condizionati dall'esperienza con Mattew, abbiamo l'impressione che ci abbia provato.
Torniamo ad Alotau: il nostro posto di ancoraggio è ancora libero, lo occupiamo fino a lunedì mattina, quando ripartiamo per la prossima tappa.

giovedì 7 luglio 2016

PNG: DEBOYNE ISLANDS, CONFLICT GROUP, HEMOE BAY

10°35.691'S 150°59.946'E
Domenica 3 luglio, alle 8.15, salpiamo da Bagaman Island; la giornata è grigia con continui leggeri piovaschi, il vento sui 20-22 nodi.
Per proseguire dobbiamo superare la grande barriera che racchiude tutte le isole fin qui visitate (Nimoa, Gigila, Bagaman e altre che non abbiamo toccato). Usciamo da una pass a NW, che si trova 1,4 miglia a SW dell'isolotto Pana Sagu Sagu, su cui registriamo come fondale minimo 8 metri. Al nostro passaggio, 2 nodi di corrente uscente creano appena fuori piccole onde stazionarie spumeggianti, che improvvisamente azzerano il rilevamento del fondale: un istante di panico, ma subito mi torna in mente di aver già provato questa esperienza nelle pass delle Tuamotu.
La nostra destinazione sono le Deboyne Islands, altro gruppo di isole racchiuse da un'unica barriera. Accediamo alla laguna attraverso il South Passage, ampio e profondo; il nostro ancoraggio, riportato nelle Guida della PNG di Alan Lucas come il migliore di questa area, si trova a NW dell'isolotto Nivani. La cartografia Navionics e C-Map è povera di dettagli, non c'è una buona luce, perciò seguiamo la striscia scura dell'immagine satellitare, indicante le acque più profonde;  alle 13.10 ancoriamo su un fondale di 9-10 metri di sabbia e coralli (10°47.185'S 152°23.255'E).
L'ancoraggio è un po' rollante, con il vento che soffia sempre a 20-22 nodi, ma l'ancora è ben affondata nella sabbia e la catena è libera nel brandeggio, possiamo stare tranquilli.
Poco dopo di noi, arrivano nella baia 7-8 canoe a vela, che ammainano sotto costa dell'isola vicina, Panapompom. Gli equipaggi, di 6-7 persone per ciascuna canoa, scendono a terra dove sembrano essere attesi dalla gente del piccolo villaggio; prima del tramonto ripartono tutti, in gruppo, nella direzione opposta a quella da cui sono venuti. Era forse una regata? In ogni caso,  questi marinai sono straordinari: su gusci così fragili, affrontano navigazioni impegnative, anche notturne, senza alcuno strumento elettronico, orientandosi con il vento, con il sole e con le stelle.
Il giorno seguente, 4 luglio, salpiamo alle 7.15: ci aspettano 41 miglia per arrivare al successivo gruppo di isole denominato Conflict Group. In questo percorso incrociamo la rotta, intensamente trafficata, delle grandi navi cargo e petroliere dirette da Singapore all'Australia e viceversa: con l'AIS è tutto sotto controllo, ma per non saper né leggere né scrivere chiamiamo al VHF una nave che si sta avvicinando alla nostra sinistra, in un incrocio potenzialmente pericoloso. “Sì, Refola, vi abbiamo visto” ci rispondono “proseguite sulla vostra rotta”; accostano di alcuni gradi e passano dietro la nostra poppa.
Le isole del Conflict Group compongono un unico atollo, disabitato e scarsamente cartografato: la guida di Alan Lucas suggerisce un unico ancoraggio adatto ad una sosta notturna, sulla barriera esterna di NW a ridosso dell'isolotto Gabugabutau. E questa infatti è la nostra meta, che ci lascia all'arrivo piacevolmente sorpresi: il sole, latitante per quasi tutta la mattinata, è tornato a splendere facendo risaltare i brillanti colori dell'acqua, dal blu intenso, all'azzurro al turchese sui fondali di sabbia e  corallo. L'acqua è limpidissima. Caliamo l'ancora sulla sabbia, su un fondo di 10 metri che scende abbastanza ripido: dando 60 metri di catena ci ritroviamo ad avere 25 metri d'acqua sotto la barca; con il vento che soffia a 18-20 nodi il ridosso è buono, solo con l'alta marea diventa leggermente rollante (10°43.784'S 151°44.307'E).

Alan Lucas racconta che negli anni 70 un gruppo americano ha qui iniziato i lavori per costruire un grande resort, ma dopo aver realizzato una pista di atterraggio nella Panasesa Island e qualche bungalow, il progetto fu abbandonato.
Il giorno dopo, martedì 5 luglio, facciamo rotta su Basilaki Island: una tappa di 47 miglia giusto per avvicinarci ad Alotau, dove faremo le pratiche di ingresso in PNG. Lasciato l'ancoraggio di Gabugabutau, costeggiamo il lato ovest di Panasesa e vediamo infatti  la striscia disboscata della ex pista di atterraggio (ora ricoperta da cespugli incolti); proseguendo, notiamo sulla spiaggia bianchissima una barca a motore, piuttosto moderna, ancorata con cime a terra, qualche costruzione in legno e un ombrellone di paglia. Forse qualche attività turistica è ancora in corso, in queste isolette remote, ma di persone... neanche l'ombra.
Proseguendo ad ovest del Conflict Group, per circa 20 miglia, c'è una vasta area che la cartografia elettronica definisce “not surveyed” (non rilevata), con numerosi bassi fondali e senza terre emerse. L'affrontiamo con cautela: Navionics e C-Map riportano profondità di 6-7-8 metri, ma in realtà nella rotta che teniamo fino alle acque sicure (245°) il nostro ecoscandaglio misura sempre dai 300 ai 400 metri. Dopo un'ora passata a strabuzzare gli occhi, con Lilli a prua ed il binocolo sempre a portata di mano, possiamo abbassare la guardia: siamo usciti dalle Luisiadi.
Il vento è calato sui 14 nodi, ma è comunque sufficiente per andare a vela.
Alle 14.30 entriamo nella profonda Hemoe Bay, dove ancoriamo su un fondale di fango duro, su 10-11 metri (10°35.691'S 150°59.946'E).
Finita la manovra di ancoraggio, comincia la processione delle canoe: prima arrivano giovani e ragazzini, curiosi di vedere la barca da vicino; poi è la volta di donne e ragazze, che vengono a proporre frutta ed ortaggi. Con tre di queste, molto chiacchierine (tra le altre cose le due più giovani ci confessano che il loro sogno è sposare un uomo bianco ed andarsene lontano), scambiamo qualche maglietta e un pacco di farina per verdura, papaia e due granchi (mud grabs) che, una volta salite a bordo, ci aiutano a pulire e a preparare per la cottura.
La baia è tranquilla e ben protetta, e meriterebbe una sosta più lunga; vi sfocia anche un piccolo fiume, che in alta marea si può risalire con il dinghy.
Le intraprendenti ragazze si erano offerte per accompagnarci alle cascate nella foresta, ma noi siamo anche desiderosi di arrivare in fretta ad Alotau, dove potremo ritrovare una connessione internet (ci manca da 15 giorni), fare dogana e metterci in regola, rimpinguare la cambusa...  così, seppure un po' a malincuore, mercoledì 6 alle 8.00 salpiamo per Alotau.