lunedì 27 giugno 2016

Ghizo, ultima isola delle Solomon

8°05.951'S 156°50.311'E
Mercoledì 22 giugno usciamo, questa volta senza incidenti, dalla baia di Munda; facciamo rotta su Ghizo, purtroppo sempre a motore. A metà percorso il mulinello, da molto tempo silenzioso, attira la nostra attenzione: sembra un pesce bello grosso, da come piega la canna. Luciano ed io ci alterniamo ad un paziente e faticoso recupero, ma quando la nostra preda è quasi visibile ad una trentina di metri, in un ultimo impeto di lotta il pesce si mette a tirare nuovamente con forza ... la frizione slitta ancora qualche giro, poi avvertiamo uno strappo e rimaniamo senza esca. Andato!
Affrontiamo l'avvicinamento al complesso di isolette ad est di Ghizo da SE; la profondità minima sulla barriera è di 10-12 metri, il percorso è libero da ostacoli fino a 2 miglia dalla baia, quando va ampiamente aggirato il reef che fuoriesce a SE, comunque segnalato da una meda quadrata rossa.
Alle 14.25 ancoriamo nella baia verso la fine del paese, in prossimità del PT109, ristorante, bar, discoteca, che si affaccia sul mare; il fondale è sabbioso, sui 12 metri (8°05.951'S 156°50.311'E).
Il PT109 ha anche un piccolo approdo, riparato, per scendere a terra e lasciare il dinghy in custodia, il personale è amichevole e gentile e permette anche di lasciare i rifiuti che verranno poi raccolti da un servizio pubblico.
Dopo Honiara, Ghizo è sicuramente la cittadina più grande ed evoluta che abbiamo trovato alle Solomon: il centro si sviluppa ai lati della strada principale, di cui i negozi cinesi occupano una porzione importante. Sono negozi sostanzialmente di due tipi: quelli che vendono prodotti alimentari e casalinghi e quelli tipo ferramenta, "hardware".
C'è un pittoresco mercato ortofrutticolo, con tutta la merce esposta a terra, sopra grossi teli. Proprio di fronte, dall'altra parte della strada, c'è un originale "ristorante", tipo cucina da campo: su ripiani di ferro vengono preparate braci e arroventate pietre, sulle quali alcune donne cucinano pesce e verdure. Per i clienti sono allestite tre o quattro tavole di legno, con panche e sedie, si mangia con le mani il cibo che viene servito in "piatti" di paglia, ricoperti di foglie.
Un hotel internazionale, con terrazza sul mare, serve invece la pizza, cotta nel classico forno a legna.
Quando parliamo con qualche locale della nostra provenienza, vediamo le persone illuminarsi con un grande sorriso: "Italiani? Ci sono molti italiani qui! Anche il nostro vescovo è italiano!". Infatti il vescovo della chiesa cattolica di Ghizo è Monsignor Luciano Cappelli, persona intraprendente e attiva, molto amata dalla comunità. Ne avevamo letto sul blog degli amici di A-Gogo, e così pensiamo di andarlo a trovare. Purtroppo, quando andiamo a cercarlo, una donna intenta a spolverare i banchi già lucidissimi della chiesa ci dice: "Don Luciano è in vacanza in Italia, tornerà a fine luglio".
Peccato, avremmo voluto conoscere questa persona, così benvoluta, che sembra aver fatto molto in questo angolo di mondo povero e con un passato difficile.
Aggiornamento sullo stato delle batterie: il test è completato; delle 12, collegate in serie-parallelo per alimentare i servizi a 24V, 6 sono efficienti, 2 sono da buttare, 2 discrete, 2 così e così.
Provvedo a cambiare gli accoppiamenti, in modo che i carichi siano più equilibrati, e la scarica sia il più uniforme possibile; riduco i consumi, freezer in funzione solo con il generatore, di notte strumenti spenti. In questo modo sono sufficienti 3-4 ore di generatore, nelle ore di buio tra le 18 e le 8: una accensione alla sera, una durante la notte ed una al mattino presto, mentre durante il giorno il contributo dei pannelli è sufficiente per evitare l'uso del generatore.
Per scrupolo faccio un giro nei negozi cinesi per vedere se si trovano due batterie da sostituire a quelle irrecuperabili: anche qui vendono solo batterie da auto, tipo sigillato per avviamento, capacità massima 70Ah, oltretutto molto costose (circa 200 ? cadauna).
Decido così di tirare avanti, monitorando sempre che la tensione non scenda sotto i 24,60V.
Facciamo un po' di cambusa, frutta e verdura soprattutto, birra, uova e pane, non si trova altro per i nostri gusti, per fortuna abbiamo ancora buone scorte.
Ci rechiamo all'ufficio immigrazione per concordare il visto d'uscita dalle Solomon, Rose l'impiegata è molto gentile, quando le diciamo che vogliamo partire sabato mattina alle 9.00, ci dice: "Vengo ad aprire l'ufficio per voi, sabato mattina, perché dopo il timbro sui passaporti dovete partire subito, per la dogana invece ci sono 24 ore di tempo". Le chiediamo se non sia possibile vederci il giorno prima, magari nel pomeriggio, altrimenti per alare e fissare il dinghy rischieremmo di partire troppo tardi. "Va bene - risponde accondiscendente - venite venerdì alle 18.00, vi aspetto".
Quando raccontiamo all'impiegato della dogana che Rose ci aspetta alle 18.00, fa una faccia strana, sembra perplesso; comunque anche lui molto gentile, ci anticipa i moduli da compilare e ci dà appuntamento per venerdì alle 15.00.
Tutto si svolge secondo copione e anche Rose, sulla quale nutrivamo qualche dubbio, puntuale ci rilascia i timbri sui passaporti ed il documento di uscita.
Tornando su Refola con il dinghy, passiamo a salutare una barca con bandiera olandese, Alk, ancorata vicino a noi; lo skipper Hans, sulla sessantina, è un subacqueo professionista, viaggia sempre con amici che condividono la passione del diving; in questo momento ospita a bordo Elisabeth, un'amica allegra e sorridente sulla cinquantina, che ama la vela e le immersioni, e fra una settimana rientrerà in Olanda.
Hanno fatto il percorso inverso a quello che stiamo per intraprendere noi, cioè dall'Indonesia alle Solomon, così prendiamo nota di alcuni ancoraggi, e copiamo tracce e immagini satellitari di Google Earth che Hans utilizza sul software di navigazione OpenCPN. Hans ci mostra anche alcune bellissime foto subacquee e ci racconta con entusiasmo di alcuni fantastici siti per immersioni.
Come sempre succede quando ci si ritrova a condividere esperienze con altri navigatori, il tempo passa molto velocemente: è già buio pesto quando ci salutiamo calorosamente, come se ci conoscessimo da tempo.
Il mattino seguente mentre stiamo salpando l'ancora, ci raggiungono sottobordo con il loro dinghy, Elisabeth ha una commissione per noi: vuole che portiamo da parte sua ad una ragazzina che ha conosciuto in una delle isole dove siamo diretti, una lettera ed un bellissimo braccialetto. Si commuove nel dirci che desidera fare questo regalo perché la piccola Dorothy le è rimasta nel cuore.
Abbiamo passato un mese alle Solomon, e le nostre impressioni sono più che positive; ci eravamo immaginati un paese difficile, con costante pericolo di furti e abbordaggi notturni, con ancoraggi complicati in acque profonde, con tempo instabile. Niente di tutto questo; se escludiamo il caso di Malaita dove alcuni giovani gasati volevano fare una bravata per estorcerci dei soldi, abbiamo sempre trovato persone gentili e disponibili, non troppo insistenti, senz'altro più inclini allo scambio che non all'autocommiserazione.
Abbiamo fatto ancoraggi sempre protetti e mai eccessivamente profondi, visto grandi lagune con centinaia di piccole isole; certo in alcuni luoghi l'acqua un po' torbida e la probabile presenza di coccodrilli non sono l'ideale per i bagni e lo snorkeling; anche col tempo siamo stati abbastanza fortunati, tranne forse per l'assenza di vento nella zona di Guadalcanal, ma non si può avere tutto dalla vita!
Un paese povero, ma che aspira a migliorare, che si è anche dotato di una struttura per la sicurezza dei naviganti: MARINE EMERGENCIES 24h TEL. 21600 oppure 977.
Il 25 giugno alle 10, sotto un cielo nuvoloso, lasciamo Ghizo e le Solomon; ci aspettano 300 miglia fino all'isola Nimoa nell'arcipelago delle Luisiadi, per noi la prima tappa in Papua Nuova Guinea.

venerdì 24 giugno 2016

le foto di Ghizo

8°05.957'S 156°50.290'E
Fra mezz'ora lasceremo Ghizo e le Solomon Islands diretti in Papua Nuova Guinea.
Poiché non sappiamo quando potremo avere nuovamente una connessione internet (probabilmente tra una quindicina di giorni), pubblichiamo le foto di questa, per noi ultima, isola delle Solomon.

Il nostro ancoraggio, di fronte al bar PT109
La “main street” di Ghizo
L’animato mercato della frutta
Accanto al mercato, su pietre roventi viene arrostito il pesce …
… che viene poi servito in questo prestigioso “ristorante”
Io e Luciano facciamo onore alla cucina locale, mentre Lilli digiuna
A Ghizo c’è un vescovo italiano, monsignor Luciano Capelli, che è molto amato dai locali. Volevamo incontrarlo, ma in questo periodo si trova in Italia. La sua chiesa è molto bella, e vi è stata allestita anche una Porta Santa.

MUNDA E IL GIORNO PIU' LUNGO

8°19.897'S 157°16.228'E
Munda si trova in una grande laguna, contornata dal reef; vi si accede tramite una pass nella Munda Bar, con un allineamento su due grossi beacon di colore arancione. Il fondale minimo della pass, al nostro passaggio, è di 6 metri e mezzo; da qui il percorso per arrivare davanti al paese è disseminato di bassi fondali, spesso estesi, e solo alcuni indicati da segnali (catarifrangenti) rosso e verde.
La cartografia elettronica, già scarsa di dettagli, non solo non è di nessun aiuto, ma è addirittura ingannevole, perché mostra a volte come libere acque che non lo sono affatto!
Abbiamo un'immagine satellitare discreta e al nostro arrivo, verso le 15, il sole è alto alle nostre spalle, tuttavia incontriamo qualche difficoltà per raggiungere la zona di ancoraggio, circa 200 metri ad ESE del molo, fondo sabbioso di 9-10 metri (8°19.897'S 157°16.228'E).
Qui per la prima volta vediamo alcune barche locali trasportare sparuti turisti per qualche escursione; l'atterraggio con il dinghy, in prossimità del molo, è in un minuscolo porticciolo presso l'hotel ristorante sulla spiaggia.
A terra un piccolo mercato ortofrutticolo, alcuni negozi cinesi e, vicino alla pista dell'aeroporto, la banca BSP (Bank of South Pacific) con ATM, che accetta solo carte Visa.
Alla ricerca di batterie, visitiamo tutti gli empori cinesi, ma troviamo solo il tipo da auto, di dubbia qualità, con capacità massima di 70 Ah, non adatte al nostro impianto.
Viste le scarse attrattive della cittadina, decidiamo di proseguire: da programma la nostra meta successiva sarebbe stata la laguna di Vonavona, ma poiché il tempo incerto con cielo a tratti nuvoloso e piovaschi ci avrebbe messo in difficoltà per navigare tra mille ostacoli, decidiamo di puntare su Ghizo, a 35 miglia.
Inconsapevoli di quel che ci aspetta, lasciamo quindi l'ancoraggio di Munda martedì 21 giugno, alle 8,20. Data fatidica!
Nel nostro emisfero (nord) il 21 giugno, solstizio d'estate, è il giorno più lungo dell'anno, mentre dove siamo ora, 8 gradi sotto l'equatore, è il più corto. Ebbene, in barba alla latitudine, il 21 giugno 2016 è stato a bordo di Refola, in assoluto, il giorno più lungo di sempre: anche noi abbiamo sperimentato cosa vuol dire incagliarsi in un reef, un basso fondale di roccia e corallo.
Ecco i fatti. Come abbiamo detto, già l'ingresso nella baia di Munda non era stato semplicissimo: eravamo passati per un varco stretto e tortuoso tra i reef, indicato da una coppia di segnali rosso e verde, con un fondale minimo di 70 cm sotto la chiglia. Nell'uscita, per non rifare lo stesso sfidante percorso, scegliamo la “via maestra”, indicataci da un locale: un giro più lungo, che fanno anche le navi, e che dovrebbe essere ben segnalato.
Calma di vento, cielo parzialmente nuvoloso, visibilità discreta. Senza troppa fatica individuiamo le prime due coppie di segnali (rosso-verde), aggiriamo due piccoli isolotti e ci troviamo nella più ampia laguna, libera da terre emerse. Ci mancano solo 500 metri per raggiungere la traccia che avevamo registrato in ingresso, ma ecco che in pochi minuti lo scenario intorno a noi cambia completamente: il cielo si annuvola, davanti non si distinguono i fondali, sull'immagine satellitare l'area che stiamo percorrendo è coperta da una nuvola, mentre alla nostra sinistra è ben visibile un basso fondale. Accosto di 10 gradi a dritta, ed in un baleno il fondale passa da 10 a 1 metro... neanche il tempo di correggere e …  boom!  la chiglia impatta contro uno scoglio di corallo e la barca si ferma. Provo subito la marcia indietro, che all'inizio sembra funzionare, ma è un'illusione: la marea è calante e Refola è incastrata, non c'è niente da fare.
Mi butto in acqua per controllare la situazione e rimango esterrefatto: ci siamo incagliati proprio sul margine del basso fondale, bastava essere solo un metro più a sinistra e saremmo passati indenni. La chiglia è incastrata, non possiamo avanzare né arretrare, ma per fortuna non ci sono danni allo scafo; dico a Lilli di fare una chiamata di soccorso, nel caso avessimo bisogno di un traino per uscire, precisando che non c'è pericolo per le persone e non c'è urgenza, in quanto dovremo aspettare l'alta marea. Via VHF ci risponde il servizio di soccorso nautico dell'aeroporto, promettendo di raggiungerci. Infatti poco dopo arriva un piccolo motoscafo, disponibile a tentare il traino, ma li ringrazio e dico che solo dopo le 18, quando la marea si sarà alzata, potremo tentare di venirne fuori.


L'impatto è avvenuto alle 9.00: la minima di marea è alle 13.37, il livello dell'acqua deve scendere ancora di 40 cm …  inizia la lunga attesa. La barca inizia ad inclinarsi, prima 1°, poi 2°, poi 3°;  per non farci mancare niente, sale anche un po' di vento, in poppa, con raffiche fino a 20 nodi, che per fortuna non durano a lungo.
Per contrastare la spinta del vento e predisporre l'uscita dal reef, col dinghy posizioniamo due ancore afforcate a poppa.
È decisamente il giorno più lungo... a pranzo facciamo fatica a mangiare qualcosa, tanto sono contorte le budella, ma ci sforziamo, stanchezza e debolezza non devono prendere il sopravvento.
Finalmente verso le 15 la barca inizia a raddrizzarsi, poi a galleggiare; vado in apnea a verificare cosa impedisce la marcia indietro, calcolo che la marea deve salire ancora di almeno altri 30 cm, e ciò significa aspettare ancora molte ore, probabilmente fino alle 21, quando ormai sarà buio... Ma forse qualcosa si può fare per accelerare i tempi: avevo infatti notato che molti pezzi di corallo dietro la chiglia potevano essere smossi, così decido di immergermi con la bombola e con l'aiuto di mazzetta e scalpello comincio a frantumare il corallo (a mali estremi, estremi rimedi!).
Alle 18.30, dall'acqua, ordino a Lilli di accendere il motore, innestare la marcia indietro a basso regime, mentre Luciano manovra i winch iniziando a tirare sulle ancore. Sempre in acqua, sotto il galleggiamento, io controllo i primi movimenti della barca … ha funzionato, Refola viene indietro senza intoppi, finalmente siamo liberi!
Alle 19.00, è ormai quasi buio, recuperiamo le due ancore; per fortuna le avevo entrambe dotate di gavitelli, perché erano incastrate nel corallo ed è stato necessario scendere nuovamente e liberarle a mano.
A bassa velocità, rientriamo al nostro ancoraggio di partenza. Siamo davvero stanchi e provati, ma raccogliamo le ultime forze per riordinare ancore, cime e catene, e lavare l'attrezzatura di immersione. Poi ceniamo e finalmente ci concediamo il meritato riposo.
Il giorno più lungo è passato e per fortuna è finito bene! Chi ha provato qualcosa del genere sa che ci vuole molto tempo per dimenticare, ma l'importante è che in breve tempo l'incidente diventi un'esperienza da cui trarre utili insegnamenti per il futuro.

VIRU HARBOUR

8°29.357'S 157°52.803'E
Sabato 18 giugno salpiamo da Seghe alle 8.40 e  usciamo dalla laguna di Marovo a SW, attraverso il passaggio nella Hele Bar, dove troviamo un fondale minimo di 6,5 metri. Purtroppo abbiamo solo un vento leggero in poppa, e quindi siamo costretti a navigare a motore fino alla nostra destinazione, Viru Harbour, una profonda insenatura sempre sulla costa sud di New Georgia.
Scegliamo l'ancoraggio nella parte più interna della baia, a NE, dove il fondale si riduce a 8 metri: acque torbide e fangose, tipico habitat da coccodrilli (8°29.357'S 157°52.803'E).
Proseguo i test sulle batterie: su consiglio dell'amico Davide Zerbinati, consultato via mail, le carico singolarmente collegandole in parallelo alla batteria del motore, poi verifico il consumo mettendo un carico di 25W per due ore. Un lavoro lungo, ma necessario per avere un quadro preciso sulla salute delle batterie.
Verso sera, quando è già buio, un vecchietto in canoa ci fa visita per proporci le sue sculture; “Ci dispiace, ne abbiamo già molte” dice Lilli, due chiacchiere e se ne va, senza insistere.
Il posto è isolato, e la luna piena conferisce all'ambiente un aspetto ancor più spettrale: qualche ramo secco che esce dall'acqua, anche vicino al nostro raggio, sembra quasi dirci “Attenzione, state in campana!”.
La notte comunque trascorre tranquilla, con la barca “inchiodata” nell'acqua. Poco dopo l'alba un giovane in canoa ci viene a proporre tre granchi del cocco che ha catturato nella notte; “Ne abbiamo acquistati molti nei giorni scorsi e ne abbiamo ancora tre nel freezer” risponde Lilli, un po' dispiaciuta di non poterlo accontentare. Ci lascia con un sorriso.
Alle 7.55 salpiamo l'ancora, lavando per bene la catena carica di fango, e facciamo rotta su Munda.

domenica 19 giugno 2016

NEW GEORGIA – LAGUNE DI KOLO E MAROVO

8°34.574'S 157°52.803'E
Proprio mentre ci prepariamo alla partenza notturna da Hoi Island, si alza un vento che non vedevamo da tempo, 20-25 nodi da ESE, al gran lasco, ed appena fuori dal dedalo di isolette vi si aggiunge anche un bel mare formato, con onde corte di oltre 3 metri: usciamo bruscamente dal torpore al quale ci avevano abituato giorni e giorni di totale calma di vento.
La prima meta che abbiamo in programma è una piccola laguna, la Wilderness Lodge, segnalataci anche dal SY A-Gogo (8°47.156'S 158°13.836'E), ma al nostro passaggio risulta notevolmente esposta all'onda: decidiamo quindi di saltarla e proseguire di altre 10 miglia, fino all'interno della Kolo Lagoon. La scelta della partenza notturna è stata proprio azzeccata!!!
Alle 11.00 di lunedì 13 giugno caliamo l'ancora nella baia appena ad ovest del Mbili Passage, su un fondale sabbioso di 7-8 metri (8°39.784'S 158°11.275'E); l'acqua è verdastra e non proprio trasparente, ma in compenso l'ancoraggio è ben protetto dall'onda e dal vento, che soffia ancora a 20-25 nodi.
Neanche il tempo di montare il tendalino da sole, che un giovane di nome Paul, di cui avevamo già letto sul blog di A-Gogo, si accosta con la sua canoa per darci il benvenuto, comunicandoci di aver preso il posto del padre John nell'aiutare le barche in sosta e nel vigilare sulla loro sicurezza.
Poco più tardi è la volta di Luten, il chief del villaggio, che ci invita a vedere, a terra, le sculture di legno prodotte dai "carvers" della sua comunità, i più eccellenti delle intere Solomon. L'appuntamento è per le 14.00.
Così, dopo pranzo, atterriamo col dinghy. Avevamo preavvisato di non avere molto contante, ma qui sono ben contenti di essere pagati in parte con denaro e in parte con "beni di scambio".  Quindi raccogliamo tutto quel che può essere utile (indumenti per bambini, acquistati in un mercatino ad Honiara, magliette nostre che non usiamo più, articoli da pesca, oggettini vari, qualche pacco di riso, zucchero e latte in polvere) e con il nostro borsone raggiungiamo gli scultori che all'ombra di alte palme hanno disposto ognuno una stuoia con i propri articoli. Sono 6 "stand", con sculture molto belle, senza dubbio le migliori viste fino ad ora: in ebano, in pietra, conchiglie lavorate e lucidate con grande maestria, c'è l'imbarazzo della scelta.


Per non fare torto a nessuno, diciamo al chief e a Paul (anch'essi tra gli espositori) che vorremmo  scegliere un articolo per ogni stand. "Saggia idea" dice Paul "voi scegliete i pezzi e poi la trattativa prosegue privatamente con ciascuno, sulla vostra barca".
Noi abbiamo alle spalle una notte in navigazione e perciò suggeriamo di completare le trattative l'indomani; "No, no" ci viene risposto "meglio finire oggi così ognuno torna ai suoi impegni e non ci si pensa più".  Inconsapevoli di quel che ci aspetta, torniamo in barca con il fagotto delle nostre "merci" e disponiamo tutto in bella mostra, sulla tuga di poppa.
Arriva il primo, dopo pochi minuti altri tre, e ben presto sono tutti su Refola, ognuno con l'articolo che abbiamo scelto, a rovistare nella nostra esposizione; noi non siamo preparati a queste trattative, che si trascinano fino a diventare estenuanti. Pur di tirar su qualche soldo, i "carvers" accettano euro, dollari neozelandesi, qualsiasi moneta, anche se per cambiarli dovranno subire cambi strozzini.
Stanchi come siamo, la nostra resistenza crolla e cediamo su tutti i fronti, pur di liberarci di questo mercato: qualche busta di tabacco, una decina di birre e finalmente alle 20.00, quando è ormai buio da un po', restiamo soli. L'ultimo a lasciarci è Paul, che ci ha procurato anche sei granchi del cocco, fornendoci istruzioni su come cucinarli.
Tutti se ne sono andati soddisfatti; noi lo siamo un po' meno, ma in compenso abbiamo la barca piena di sculture! Visto che ormai abbiamo pagato un bel dazio, decidiamo di stare un altro giorno nella baia: "Ora che ci hanno prosciugato, ci lasceranno in pace, così possiamo goderci questo tranquillo ancoraggio!"
Il mattino seguente, invece, arrivano altre canoe. Un altro gruppo di quattro scultori, provenienti dal villaggio principale di Mbili, chiedono di mostrarci le loro opere. Cerchiamo di essere gentili, dicendo che abbiamo speso tutto con la mostra del giorno precedente, ma insistono per farcele vedere e così la tuga di Refola si riempie di bellissimi oggetti. Questa volta è Lilli a prendere in mano la situazione: "Se volete, possiamo darvi una maglietta o un giubbino, ma i soldi sono finiti, prendere o lasciare". Non accettano lo scambio, e dopo qualche chiacchiera se ne vanno, probabilmente un po' delusi, ma salutandoci col sorriso.
Nella tarda mattinata arriva anche Milton, uno degli scultori del giorno precedente, a portarci le papaie e una zucca che ci aveva promesso. Dovevano essere il saldo per le nostre "mercanzie" prese il giorno prima, ma è venuto con la moglie, una bella e giovane donna in carne, e ci dice: "Questa frutta è di mia moglie, dovete trattare con lei". Lilli con fare gentile, ma nello stesso tempo risoluto, le offre qualche indumento, ma lei sembra mirare ai soldi. "Se non vi va bene, riprendetevi la vostra merce" dice Lilli, che davvero non ne può più. Interviene allora Milton: "Va bene un chilo di zucchero".
Paul ci chiede di dare un'occhiata al suo piccolo generatore, che non funziona: andiamo a terra, ce lo mostra, ma non ha nemmeno una chiave per aprirlo e di conseguenza lo portiamo a bordo, per vedere se si può sistemare.
Una volta nel pozzetto, dall'involucro di stoffa che avvolgeva il generatore salta fuori un grosso scarafaggio, che Paul blocca al volo e getta fuori bordo; appena aperta la mascherina della parte elettrica ne escono altri tre, per fortuna anche questi presi e gettati in acqua.
Purtroppo c'è ben poco da fare: il generatore è fermo chissà da quanto tempo, alcuni fili sono interrotti, il sistema di avviamento a strappo è arrugginito. Ripristino i collegamenti elettrici, e dico a Paul che per l'avviamento deve andare ad Honiara e sostituire il meccanismo di plastica consumato (essendo Yamaha non dovrebbe essere difficile trovare il ricambio). Paul mi ringrazia, ma dice: "Andare ad Honiara è molto costoso, ed anche i pezzi di ricambio sono costosi, se non troverò qualche altro yacht che fa questo viaggio lo butterò".
Poco più tardi è la volta del Chief Luten, il più anziano dei nostri "fornitori", ma anche il più onesto e sincero. È venuto per salutarci e ringraziarci, ma anche per farci vedere di nascosto l'oggetto più prezioso che non era esposto il giorno prima: una statuina in pietra raffigurante una sirena che tiene tra le mani i seni, un bell'oggetto finemente lavorato. Forse non era esposto perché considerato troppo osé. "In tutto il mondo la vista dei seni crea un certo interesse" ci dice, ma visto che non facciamo richieste sul prezzo, rimette via la sua preziosa scultura. La sua discrezione ci consola dell'insistenza dei più giovani, e così lo salutiamo regalandogli una busta del nostro tonno congelato, ed una coca-cola.
Mercoledì 15 giugno, alle 9.00 lasciamo l'ancoraggio per dirigerci circa 12 miglia più a nord, a Matiu Island. Siamo sempre all'interno di questa grande laguna circondata da due barriere, piena di isole, isolette, bassi fondali e banchi corallini. La cartografia elettronica, Navionics e C-Map, è molto imprecisa e povera di dettagli; abbiamo però una buona immagine satellitare, e anche se a causa del cielo un po' coperto la visibilità non è delle migliori, riusciamo a fare il percorso in tutta sicurezza.
Alle 11.30, dopo avere ampiamente aggirato a NW il basso fondale che delimita a SW la nostra baia, caliamo l'ancora su un fondale sabbioso di 6-7 metri (8°29.772'S 158°08.984'E). Anche questo ancoraggio, come il precedente, è ben riparato dal vento dominante di ESE, l'acqua è calmissima e verde, ma non trasparente.
A terra non vediamo capanne, l'isoletta di Matiu è disabitata; sulla spiaggia vediamo i segni di una attività di taglio alberi ormai abbandonata. Pensiamo che forse qui potremo stare tranquilli, ma nel pomeriggio ci raggiunge una canoa. Un signore piuttosto distinto, proveniente dal villaggio di Telina sull'isola Vangunu, ci dice che ci ha visto passare la mattina e così ha pensato bene di pagaiare per 4 miglia per proporci le sue sculture! Ormai rassegnati, gli diamo 100 Solomon$ (circa 12 €) e un vecchio rapalà per una graziosa statuetta di legno, intarsiata con pezzi di madreperla, poi un chilo di riso per un sottopentola di paglia. Anche lui se ne va contento; Lilli si dà da fare per trovare un posto dove stivare la nostra batteria di sculture, Luciano ci propone di metter su un banchetto abusivo a Santa Lucia.
Finalmente soli, andiamo col dinghy a fare un giro sul reef che circonda la baia a sud, facciamo un po' di snorkeling e vediamo dei bei coralli e molti pesci di piccolo taglio.

Il giorno dopo, passiamo una giornata di relax: bucato, sostituzione della girante del generatore, controllo della tensione delle batterie, che nelle ultime settimane hanno dato segni di "stanchezza".
Venerdì 17 giugno, alle 8.30 , lasciamo l'ancoraggio di Matiu Island, per attraversare la Marovo Lagoon fino al villaggio di Seghe, sull'isola di New Georgia.
Il percorso verso ovest sarebbe adatto per avere la luce alle spalle, ma di sole ce n'è ben poco, così anche questa volta ci salvano le immagini satellitari e il nostro Sas Planet: io al carteggio a dare indicazioni sulla rotta, e Lilli e Luciano fuori al timone e a scrutare davanti.
L' ancoraggio si trova nel canale che separa Vangunu Island da New Georgia; vi arriviamo alle 12.25 e gettiamo l'ancora circa 100 metri a nord del molo del villaggio di Seghe, su un fondale di 7 mt di sabbia e coralli bassi (8°34.574'S 157°52.803'E).
A terra, in prossimità del molo, c'è il mercato ortofrutticolo: solo 4 banchi sono ancora presenziati, con sopra poche cose, betel nut, qualche banana, qualche cocco; lì vicino due piccoli "supermercati", con scatolette e merce non deperibile. Uno dei due ha il cartello per il prelievo di contante con il POS, ma quando chiedo di prelevare mi dicono che non hanno soldi!
Le case del villaggio sono belle e nuove, quasi tutte a due piani; sulla collina, in posizione dominante, una grande chiesa. Seghe è un centro importante della religione metodista, tanto che stanno costruendo una nuova scuola di teologia.
Questa di Seghe è l'ultima tappa all'interno delle lagune Kolo e Marovo, caratterizzate da acque calme e venti leggeri, la prossima meta è Viru Harbour sulla costa sud di New Georgia.

TAMBAE BAY - RUSSELL ISLANDS

9°06.916'S 159°08.827'E
Sabato 11 giugno alle 9.30 salpiamo da Honiara; il vento da ESE rimane a sud di Guadalcanal, per noi invece che costeggiamo il lato nord,  un'altra tappa a motore: 24 miglia fino a Tambae Bay, sulla costa NW di Guadalcanal.
Alle 13.45 caliamo l'ancora su un fondale sabbioso di 7-8 metri (9°15.851'S 159°39.823'E). L'ancoraggio è suggestivo e tranquillo, qualche canoa passa nelle vicinanze, solo per salutare, senza fermarsi.
Quando Luciano ed io scendiamo a terra, ci accoglie Kennet: sulla sessantina, ci racconta che tempo fa suo padre era il proprietario della baia, e ne aveva venduto una parte su cui  era stato costruito un  resort, che fu poi distrutto nel 2007 durante i conflitti etnici tra le isole di Guadalcanal e Malaita.  In attesa della fine della guerra civile, la gente del villaggio si  era ritirata nella foresta, e poté tornare solo dopo tre anni, grazie all'intervento della forza multinazionale coordinata dagli australiani. Il resort non fu mai ricostruito, ma tuttora la località è conosciuta come Tambae Resort.
“Al tempo del resort, gli yacht che ancoravano qui pagavano 150 $/notte, più altri 100 $ se facevano escursioni o snorkeling sui reef, ora li pagate a me, sono per la mia tribù” ci dice Kennet, e nel fare questa richiesta sembra quasi imbarazzato, non c'è alcuna prepotenza nel suo atteggiamento. “Non abbiamo molti soldi” gli dico “ma possiamo darvi un po' di zucchero, riso e latte”.
Nel frattempo ci fa da cicerone attraverso il villaggio, accompagnato dalla sua nipotina; sulla strada che conduce ad Honiara c'è un chiosco, dove giovani donne vendono i soliti betel-nut, oltre a qualche mazzetto di fagiolini, dei ghiaccioli conservati in un frighetto, un po' di sigarette sciolte. È l'unica strada che costeggia tutta l'isola, ed il traffico (una ventina di macchine al giorno) giustifica l'attesa per raggranellare qualche spicciolo.
Il giorno seguente salpiamo da Tambae e lasciamo Guadalcanal per la “West Province”; la prima tappa è sulle Russell Islands, dove fino al 2003 massive coltivazioni davano lavoro a migliaia di persone. Yandina, centro economico dell'impresa iniziata da privati e poi diventata pubblico-privata, era allora una città “quasi occidentale”. Anche qui, a causa della guerra civile e di contrasti  tra il Governo e la società che gestiva le coltivazioni, cessarono tutte le attività.
Nelle Russell, abbiamo letto, non è facile trovare un buon ancoraggio, perché ovunque ci sono acque profonde e la costa è molto frastagliata; per fortuna, seguendo le indicazioni del SY Bosum Bird (trovate  su internet: http://www.bosunbird.com/), andiamo a colpo sicuro. Provenendo da SE, imbocchiamo il canale tra Pavuvu Island ed Hoi Island; dopo circa mezzo miglio, proprio in mezzo al canale, c'è un basso fondale sabbioso sui 12 metri,  che termina 100 metri più a nord con una secca dove il fondale è di circa 2 metri. Indicazioni precise e molto utili, che ci evitano di vagare alla ricerca di un buon posto per passare la notte. Alle 13.20 gettiamo l'ancora nel punto indicato da Bosum Bird (9°06.916' S 159°08.827' E); un bagno veloce, giusto per vedere l'ancora nella sabbia (solo io, perché l'allarme coccodrilli è sempre attivo); nel canale c'è una corrente verso sud di circa 1,5-2 nodi.
 
Poiché la tappa successiva, fino all'isola di New Georgia, è di almeno 60 miglia e inoltre l'atterraggio si trova in una laguna con bassi fondali, dove è necessaria una buona visibilità ed il sole alto, decidiamo di partire all'una di notte di lunedì 13.

le foto di Honiara, isola di Guadalcanal

Il prestigioso Yacht Club di Honiara
La spiaggia divisa a metà tra Yacht Club e barche locali, accatastate una sull’altra
La rassicurante presenza delle navi militari della polizia
Il variopinto mercato di Honiara
Refola al molo del distributore di gasolio, da cui è sceso Francesco per prendere l’aereo che lo ha riportato a casa
Foto ricordo della cena offertaci da Hiro, navigatore giapponese

lunedì 13 giugno 2016

HONIARA

9°25.698'S 159°57.308'E
Il 5 giugno, dopo aver navigato per 7 ore a motore, senza un alito di vento, su un mare liscio come l'olio e con tasso di umidità al 90%, arriviamo ad Honiara, Mbokona Bay.
La baia si trova subito ad ovest del piccolo promontorio Point Cruz, sul cui lato est è stato costruito di recente il porto commerciale, con un terminal per i container; la parte ovest del promontorio, consolidata da un frangiflutti di prefabbricati di cemento, è normalmente utilizzata da piccole barche e sgangherati traghetti, con ancora e cime a terra sul frangiflutti stesso.
L'ingresso della baia è segnalato da una coppia di boe (rosso a sinistra, verde a dritta) posti alle estremità dei due grandi reef che si estendono da entrambi i lati; un allineamento a terra, con due luci verdi lampeggianti, consente un sicuro atterraggio anche di notte.
Alle 14.10 gettiamo l'ancora al centro della baia su un fondale di sabbia/fango sui 20 metri (9°25.698'S 159°57.308'E).
Dobbiamo completare le pratiche d'ingresso, ma essendo domenica rimandiamo l'operazione all'indomani.
Ci è stato detto ed abbiamo letto che sulla baia si affaccia uno Yacht Club, che rappresenta un punto di riferimento sicuro, mentre tutto intorno furti e rapine sono sempre in agguato; i nostri amici di A-Gogo, nel 2014, hanno subito qui un tentativo di abbordaggio notturno.
Con un po' di circospezione, scendiamo a terra in perlustrazione: gli uffici dello Yacht Club sono chiusi, ma il bar è aperto. Bevendo una bella birra fresca assumiamo le prime informazioni: dove sono dislocati dogana, immigrazione, supermercati, mercato di frutta e verdura.
La struttura del club è originale: ben visibile anche dal mare per l'alto tetto aguzzo, in foglie di palma intrecciate, sorretto da grossi montanti in legno. È un vero Yacht Club, tutto recintato, con piccole derive per la scuola di vela, il tabellone con i nomi dei vincitori di trofei di pesca; l'ingresso dalla strada, un cancello in acciaio, è controllato 24 ore su 24, con tanto di registro degli accessi.
La spiaggia è divisa in due parti: la metà ovest è riservata al club e comprende anche un piccolo pontile, alla cui estremità c'è un fondale di circa 1,5 mt; la metà est è utilizzata da decine e decine di barche a motore che in un via vai continuo trasportano i locali dai loro villaggi alla capitale e viceversa, occupando tutto il bagnasciuga e rendendo talvolta impossibile raggiungere terra.
Appena ad est della spiaggia c'è un grosso pontile in ferro, ad uso esclusivo della polizia, ai lati del quale sono ormeggiate all'inglese due grosse unità navali sui 30 metri, più altre due unità più piccole.
La massiccia presenza di polizia nella baia, almeno in parte, ci rassicura; forse riusciremo a dormire tranquilli!
Alle spalle dello Yacht Club, lungo la strada principale, vediamo decine di negozi cinesi, molti dei quali aperti anche di domenica. In giro ci sono numerose famigliole, provenienti da altri villaggi di Guadalcanal o dalle isole vicine.
Lunedì mattina completiamo le pratiche per l'ingresso alle Solomon, pagando le tasse dovute: in Solomon $, 2350 per la dogana (la tariffa dipende dalla lunghezza della barca, circa 18 US$ al metro), 200 per la Biosecurity, 300 per l'Immigrazione (cifra fissa indipendentemente dal numero di persone a bordo). Complessivamente, circa 342?.
Qui a Honiara è possibile ottenere il rifornimento di gasolio esentasse; la procedura è un po' lunga: occorre prima ritirare un modulo presso gli uffici Inland Revenue, una sorta di agenzia governativa delle entrate, che va compilato con i dati della barca; poi si va negli uffici dell'azienda distributrice (South Pacific Oil oppure Markwarth Oil) perché compilino il modulo nella parte di loro competenza e alleghino una fattura pro-forma; si torna all'Inland Revenue per ottenere il visto di approvazione, con il quale si può procedere al pagamento del gasolio. A questo punto occorre solo fissare l'appuntamento per il rifornimento.
Il distributore si trova nell'ultimo pontile ad est del porto; vi vengono riforniti anche traghetti e piccole navi, ma il lato est del molo è riservato alle barche del diporto; è piuttosto alto, in cemento, sorretto da pilastri; il fondale idoneo all'ormeggio, fino a 2,60 metri, è limitato a una trentina di metri.
Non siamo invece riusciti a procurarci il gas per la cucina: il negozio che ci era stato indicato (appena fuori dello Yacht Club, a sinistra ), che oltre a vendere attrezzature e fornelli si occupa del rifornimento delle bombole, si rifiuta di riempire le nostre camping gas da 3 kg perché il loro è gas propano, mentre le camping sono tarate per il gas butano; in realtà in Polinesia Francese non hanno fatto alcuna difficoltà in quanto le caratteristiche di sicurezza, pressione e temperatura sono simili.
Anche per la riparazione alle vele dobbiamo arrangiarci, non c'è una veleria né alcuno attrezzato per far riparazioni.
Per il resto si trova tutto, e un po' alla volta rimpinguiamo la cambusa di tutto quel che ci serve. Honiara è una città in espansione, con un traffico intenso nelle ore di punta, e anche grossi marchi internazionali di attrezzi e strumenti iniziano ad aprire punti vendita.
Lo stesso lunedì arrivano altre due barche a vela: "Intender", con una coppia di polacchi naturalizzati americani e uno Jeannou 381 condotto da un giapponese che in solitario riporterà la barca in patria. Sono le prime barche che vediamo da quando abbiamo lasciato Port Vila nelle Vanuatu, ed è naturale familiarizzare subito.
I polacchi ci invitano a bordo per un aperitivo a base di succo di frutta e vodka, che al secondo giro letteralmente ci stronca.
Tra una cosa e l'altra, i giorni passano velocemente e giovedì 9 giugno è il giorno della partenza di Francesco; partenza un po' tormentata, perché l'aeroporto di Honiara, martedì 7, pensa bene di entrare in sciopero. Con apprensione seguiamo su internet lo stato dei voli (tutti cancellati), e ci tranquillizziamo solo la mattina stessa della partenza, quando vediamo indicato in arrivo il volo da Brisbane corrispondente a quello di Francesco. Ci salutiamo quindi sul molo del gasolio: dopo i 50 giorni che ha passato su Refola, ci sembra proprio di conoscere Francesco da sempre, e con lui siamo stati davvero bene.
L'ultimo giorno che passiamo ad Honiara Luciano ed io lo dedichiamo quasi totalmente ad aiutare Hiro, il giovane giapponese di Okinaua, che deve armare le nuove vele che si è fatto spedire qui. Non sembra molto esperto, e forse senza di noi non ce l'avrebbe fatta; per sdebitarsi, la sera ci offre una cena in un bel ristorante giapponese, a pochi passi dalla nostra spiaggia.
Sabato 11 giugno lasceremo Honiara per una piccola tappa di 24 miglia fino all'estremità NW di Guadacanal, Tambae Bay.

mercoledì 8 giugno 2016

Solomon : UKI NI MASI - MALAITA

9°30.086'S che 160°36.240'E
Il 1° giugno, di buon mattino, lasciamo la bella Santa Ana. Il cielo è ancora coperto e, proprio al momento di salpare, un diluvio che riduce la visibilità a qualche decina di metri ci costringe a sospendere la manovra per alcuni minuti.
Tutta la giornata è un continuo alternarsi di groppi con pioggia intensa e raffiche di vento a 25-30 nodi, per fortuna al gran lasco. Per ripararci dalla pioggia che arriva da poppa, montiamo la chiusura verticale del tendalino che mette al riparo metà pozzetto, mentre il vento teso e le onde ci fanno correre ad una media di 8 nodi; alle 14.50 siamo già a Uki Ni Masi Island, con 58 miglia alle spalle.
Entriamo con cautela nella ampia Salwyn Bay: non abbiamo la foto satellitare, la cartografia è scarsa di dettagli e la nostra posizione su Navionics risulta addirittura sul reef! Il cielo grigio di nuvole non ci aiuta a distinguere i colori dei fondali; la baia, aperta ad ovest, è ben protetta da nord a sud e il fondale risale dolcemente con acque calme e limpide. Ancoriamo su un fondo di sabbia con qualche corallo isolato sui 9-10 metri (10°17.066'S 161°43.564'E).
A terra si nota una sorta di segheria, dove vengono tagliati grossi tronchi, che vengono accatastati in prossimità della spiaggia; le case del villaggio si intravedono appena, più in alto sulla collina.
Purtroppo anche qui il segnale telefonico è debole, non si riesce nemmeno a scaricare la posta, non funziona Whats App, né tanto meno internet.
Con il tempo così poco invitante, rinunciamo a scendere a terra e decidiamo di ripartire l'indomani.
La prossima meta, l'isola di Malaita, ci aveva creato qualche perplessità: avevamo letto che l'isola, o meglio i suoi combattivi abitanti, erano stati al centro dei conflitti che hanno tormentato e insanguinato la storia recente delle Solomon. Dal 2003, e tuttora nelle maggiori isole, è presente il presidio militare australiano (e di altre nazioni del sud Pacifico) che era intervenuto per sedare i disordini ed evitare una vera e propria guerra civile.  Quando abbiamo chiesto a S. Cruz notizie su Malaita, ci hanno risposto: ”Lì la gente è cattiva”. Non a caso anche la nostra “Lady Custom”, poi ribatezzata “Lady Alcool”, è originaria di Malaita; tuttavia gli amici svizzeri di A-Gogo, quando sono stati a Malaita nel 2013, hanno descritto questi posti in termini entusiastici.
Alla fine il meteo decide per noi: la rotta di 330° che  porta a Malaita ci consente di andare a vela con il vento dal traverso al lasco, e di navigare molto veloci con tutte le vele a riva.
Il way-point di ancoraggio, segnalatoci da A-Gogo, è Port Bougard, che si trova nello stretto canale che separa Malaita da Small Malaita, a SE, e detto per inciso di “Port” ha solo il nome. Ancora una volta, proprio quando ci apprestiamo ad entrare nel canale, una pioggia torrenziale, sotto un cielo nero, ci sbarra la strada.
Aspettiamo che passi il grosso del diluvio, poi sotto una pioggia sottile e pungente percorriamo le ultime 3 miglia, fino a quando il canale si allarga formando una sorta di lago.
Ancoriamo su un fondale fangoso di 7-8 metri, in acque calme ma torbide (10°17.066'S 161°43.564'E).
Dopo l'ancoraggio alcune canoe, con a bordo ragazzini, si avvicinano per curiosare; c'è un certo via vai di piccole barche a motore che percorre il canale nei due sensi; da terra si sente provenire, in corrispondenza di una chiesa, il tipico vociare dei ragazzi a scuola.
Una delle barche, con alcuni giovanotti a bordo, ci sfreccia più vicino, salutando con qualche urlaccio; Luciano commenta: ”Che brutti ceffi!”.
La notte passa sotto una pioggia incessante e l'indomani alle 8.00 salpiamo nuovamente. Appena fuori dal canale veniamo raggiunti da una barca a motore, che ci fa segno di fermarci: sono gli stessi “brutti ceffi” della sera precedente. Disinserisco la marcia ed appena sotto bordo il primo di loro si attacca al tienti bene, mentre un altro ci dice che abbiamo sostato nella loro baia e dobbiamo pagare una tassa di 1000 $.
A questo punto assumo un atteggiamento risoluto, e dico a Francesco ad alta voce:”Chiama la Polizia”. I ragazzotti insistono nella loro richiesta, senza mollare la presa sulla barca, allora cerco di staccare le mani del primo giovane, urlando: ”Via, via!”, poi reinserisco la marcia e do motore a 2000 giri. L'aumento di velocità sorprende il loro timoniere, il primo si sbilancia e si stacca dalla presa, e poi desistono dall'inseguimento.
Come commentare questo fatto? Sicuramente giovani sbandati che ci hanno provato: non erano armati e nemmeno troppo aggressivi, certo che se l'abbordaggio fosse avvenuto mentre eravamo all'ancora, difficilmente ce li saremmo tolti di torno, se non lasciando loro qualcosa... forse la pioggia che è continuata fitta fino al momento di salpare ci ha salvato!
Facciamo rotta su Waisisi Harbour a 27 miglia: vento debole/assente, percorriamo tutto il percorso a motore.
Questo tratto di costa è caratterizzato da ampie lagune protette da isolette lunghe e strette con alcuni passaggi per andare all'interno; anche Waisisi Harbour ha le stesse caratteristiche, ma in fase di avvicinamento ci risulta impossibile distinguere l'accesso. Per alcuni minuti temiamo che la cartografia, già scarsa di dettagli, sia addirittura sbagliata, quando finalmente, a meno di un miglio di distanza, il passaggio ci appare quasi d'incanto.
Si entra in una ampia laguna, con acque profonde e sicure e un villaggio di fronte all'ingresso; alle 13.10 caliamo l'ancora nella parte più interna ad est della laguna, su un fondale fangoso di 12-13 metri ed acque torbide (9°19.213'S  161°05.319'E).
Dopo l'ancoraggio veniamo circondati da numerose canoe con a bordo ragazzini tra gli 8 e i 14 anni, inizialmente un po' timidi, ma incuriositi, non parlano inglese ma lo capiscono; distribuiamo loro un po' di cioccolatini e forse per questo ci stanno intorno tutta la giornata.
Molti adulti, intenti a pescare, girano più al largo; solo un certo Steven viene sottobordo: sulla sessantina, parla un buon inglese. Vista l'esperienza del mattino a Port Bougard, gli chiediamo se possiamo fermarci e passare una notte all'ancora. Risponde di sì, ci dà il benvenuto e ci racconta la sua storia: ha lavorato 22 anni in un cantiere ad Honiara ma poi, in seguito ai disordini e conflitti tra Guadacanal e Malaita, il cantiere è stato chiuso e lui ha fatto ritorno qui, al suo villaggio di origine.
Nel pomeriggio la pioggia ci dà un po' di tregua e ci soffermiamo a guardare i ragazzi giocare a pallone sulla spiaggia, alcuni arrampicarsi come scimmie sulle alte palme per staccare i cocchi, altri giocare con un piccolo coccodrillo morto, lungo poco meno di un metro.
Uno dei ragazzi ci offre due papaie e in cambio gli diamo una busta del nostro tonno surgelato:  fiero dello scambio, lo mostrato agli amici ed ai pescatori, mentre i bambini che erano saliti sulle palme ci portano in dono alcuni cocchi già puliti.
Al tramonto tutti ritornano con le canoe alle loro capanne, un raggio di sole entra nella baia ed illumina le alte palme davanti a noi, un buon auspicio per la tappa di domani.
Così è infatti: sabato 4 giugno alle 8.00, quando salpiamo, il sole è già alto e caldo.
È l'ultima tappa prima di Honiara, la nostra meta è Rua Sura Island, a 35 miglia. Il vento è assente, procediamo a motore su un mare piatto e alle 13.00 entriamo nella baia a NW dell'isola, aggirando ad ovest il piccolo isolotto Papari; nonostante sulla cartografia C-Map e Navionics sia indicato un fondale di 6 metri, le acque sono ovunque profonde fin sotto il reef semiaffiorante. Gettiamo l'ancora sul fondale sabbioso di circa 20 metri, giusto per poter ruotare sicuri con 70 metri di catena (9°30.086'S 160°36.240'E).
Ci sono alcune canoe con gente del posto intenta a pescare, al nostro arrivo si avvicinano per salutare e poi ritornano alla loro attività.
Nel pomeriggio un altro di loro si avvicina , si chiama Simon, ha 30 anni e vive qui .
Gli chiediamo quante persone ci sono nell'isola: “10 , ma alcuni domani tornano sulla costa di Guadacanal”. “Quanti siete nella tua famiglia?” “Siamo in 3, io e 2 donne”.  Il suo inglese è incerto ma si fa capire. “Hai due mogli?” “Noooo, una moglie!”. ”L'altra è tua cognata?” “Sì”, dice lui.
Dopo questo scherzoso scambio di battute, gli chiedo se ci sono aragoste, lui risponde di sì e che torna più tardi a portarcele.
Quando ormai è buio, arriva Simon, con dei bei pesciotti sui 3-4 etti, ma niente aragoste, forse non ha capito...  “Di pesce ne abbiamo molto, noi volevamo le lobster!” gli dico e gli faccio un disegno dell'aragosta. “Yes, ok, domani mattina alle 6”.
Per ringraziarlo dell'impegno, gli offro una birra fresca, che si beve tutta di un fiato. “È stato tutto il giorno sotto il sole a pescare” penso tra me e me, ma subito dopo me ne chiede un'altra, da bere quando andrà a prendere le aragoste.
Vista la precedente esperienza di Vanikolo, mi verrebbe da dirgli “Dopo la consegna!”, ma non me la sento di negargli la seconda birra, così ci salutiamo, mentre matura in me la convinzione che anche questa volta di aragoste non vedremo neanche l'ombra.
L'indomani, alle 6.00, quando Lilli apre il tambuccio, Simon è già a pochi metri che aspetta. Ha una bella aragosta di un paio di chili, e vuole in cambio la bottiglia di alcool che gli ho mostrato la sera prima. Una breve contrattazione, e ci accordiamo per una bottiglia di vino ed un'altra birra. 
Così, poco dopo le 7.00, lasciamo l'ancoraggio con destinazione Honiara, a 40 miglia.
Finalmente avremo la connessione internet!!!!

martedì 7 giugno 2016

Le foto di SANTA ANA, Solomon

Issato il balooner, navighiamo a farfalla verso Santa Ana

La calmissima baia di Port Mary, Santa Ana
Il villaggio di Port Mary

La "main road" che congiunge i tre villaggi dell'isola e l'aeroporto, di cui i locali sono davvero orgogliosi

I bambini, appena usciti da scuola, fanno un bel pezzo di strada con noi
Il villaggio di Nataghera
Anche qui è pieno di bambini, allegri e sorridenti

Le Kastom House di Nataghera, luoghi sacri, con le ossa dei notabili